Se ne è accorto persino Gasparri, e questo dovrebbe farci riflettere. Dovendo scegliere un obbiettivo contro cui scagliarsi nelle sue crociate contro internet, invocando la censura, il nemico principale è stato identificato nei Social Network (anzi, nel Social Network: Gasparri ed il resto dei politici pare conoscano solo Fb, forse in parlamento FriendFeed è sconosciuto e Twitter poco “usabile” perché fino a pochi giorni fa solo in inglese, e si sa che ila maggior parte dei nostri politici ha seri problemi persino con l’italiano). I blog, che fino a qualche mese fa erano l’orrore che avanza, sono passati, fra le emergenze di questo paese, in secondo piano: si invoca, certo, una legge censoria “spalmabile” anche su di loro, ma, se si leggono le dichiarazioni, vengono ora trattati come una postilla, per quanto fastidiosa. E l’impressione è che poi, mentre fino a qualche tempo fa tutti i blog ed i blogger erano considerati ugualmente “pericolosi”, ora ciò che preme alla politica, o meglio ai politici, sia mettere semmai il bagaglio, o almeno qualche bel bastone fra le ruote, giusto ad un paio di siti noti alle masse, tenuti per lo più da personaggi pubblici, come Gilioli o Grillo o lo stesso di Pietro. Personaggi che certo sono blogger e anche famosi, ma, in fin dei conti, vengono attaccati e iscritti nel registro dei “cattivi” per la loro attività politica/informativa in senso lato, di cui il web è solo un aspetto, anche se non secondario.

Che i politici di internet e di tutto ciò che ci frulla dentro capiscano un beneamato nel 90% dei casi è palese a chiunque navighi anche solo poche ore al giorno; ma i politici hanno però, e questo va riconosciuto loro, una antenna sensibilissima per sintonizzarsi sugli stati d’animo della massa e sulle nuove tendenze. Per cui se passano dagli alti lai contro i blogger ed i blog a quelli contro i social network si può sorridere per la loro manifesta impreparazione su cosa siano questi ultimi, ma è meglio interrogarsi sui motivi che determinano il cambio di bersaglio.

Il blog, in effetti, pare essere arrivato negli ultimi tempi ad un punto di svolta; forse, semplicemente, ad un necessario momento di ridefinizione. In Italia c’è stata la fase pionieristica, in cui ad aprire un blog e mantenerlo aggiornato erano pochi nerd che si parlavano essenzialmente fra loro; superata quella, c’è stato il periodo della curiosità creativa, in cui molti, sia professionisti dell’informazione sia persone comuni, si sono buttati sul nuovo strumento, alle volte mettendo in piedi, in maniera più o meno consapevole – o anche più o meno inconsapevole – laboratori di sperimentazione comunicativa; è seguita la fase del vero e proprio “impatto di massa”; quella in cui, per dire, tutti coloro che avevano una connessione adsl e un minimo interesse per la rete hanno aperto un blog (magari per lasciarlo morire d’inedia dopo un post e mezzo). Un periodo di sbornia, insomma, e di simpatici dilettanti allo sbaraglio, di cui ho fatto parte e faccio parte anche io.

Solo che il blog richiede, per sua stessa natura, non solo una minima abilità comunicativa da parte dello scrivente – che deve scrivere un contenuto almeno in parte originale, per invogliare i passanti a leggere il suo blog – ma anche una dose di dedizione, di costanza e di “mestiere” per fideizzare il giro di lettori. Doti che in Italia sono rarissime, ad ogni livello, a causa di una impostazione culturale che ha sempre ritenuto il saper scrivere ed il saper comunicare in senso lato una sorta di abilità innata dell’individuo, che uno ha o non ha a prescindere: qualcosa di simile alla fiammella dello Spirito Santo scesa sugli apostoli, non il risultato dell’apprendimento di specifiche tecniche che sono alla portata di tutti. Siamo un paese in cui, a scuola, ancora si sentono insegnanti spiegare ai genitori che il figlio non raggiunge la sufficienza nel tema perché non è “portato per la scrittura”, mentre la sufficienza in un tema non è questione di predisposizione, ma solo di tecnica; per avere un voto superiore al sei, uno deve scrivere qualcosa di buono; per arrivare alla sufficienza basta che sappia comporre un testo ordinato, corretto e chiaro: cose alla portata di chiunque, se gli hanno insegnato le regole per farlo.

Ecco, in Italia questa capacità di scrittura-comunicazione elementare non è diffusa, nemmeno fra coloro che poi hanno un buon livello di scolarizzazione: ci sono medici ed avvocati che sanno dare pareri tecnici professionali perfetti, ma non sono capaci di scrivere un biglietto di auguri originale; direi di più: la capacità di essere comunicativamente diretti ed efficaci latita persino fra gli intellettuali “alti”. I quali, nel Bel paese dove il sì suona, ma è sempre accompagnato da una pletora di parole ridondanti attorno, sono famosi per considerare il “farsi capire” una forma di degrado del sapere, uno svilimento della cultura.

Per tutti costoro il blog era ed è uno strumento faticoso da gestire e da comprendere, mentre il social network è un ambiente più familiare, se vogliamo meno sperimentale. Il sn è una forma chiusa in sé, e non solo per il numero di caratteri prefissato per il twit o lo status; è proprio pensato e nato come un contenitore più preciso, con a disposizione un certo numero di funzioni, per quanto poi espandibili. Non richiede per sua natura una particolare dose di originalità o una specifica abilità comunicativa: non la esclude, alle volte la stimola (alcuni twit o status sono geniali), ma nemmeno la pretende. Facebook è pieno di gente che si limita a postare: “Quanto mi rompo in ufficio!” ogni santa mattina in cui sono alla scrivania.

L’adesione di massa (a livello mondiale, e italiano) a questo tipo di contenitore è pertanto fenomeno comprensibile. Rispetto al blog il social network consente un soddisfacente livello di interazione anche a persone che hanno abilità comunicative abbastanza limitate e mette loro in mano la possibilità di divulgare automaticamente il loro prodotto comunicativo (lo status o il twit) presso un pubblico vasto senza doversi confrontare con il problema pratico della diffusione. Chi ha un blog ha dovuto fare esperienza di aggregatori, trackback, feed, link eccetera, chi entra in un social network no, ha degli strumenti già preimpostati e si limita a sfruttarli senza spesso avere neppure una coscienza precisa di come funzionino. La differenza fra chi arriva al social network dopo l’esperienza del blog e chi ci arriva direttamente è spesso visibile ad occhio nudo dalle pagine del social network: i blogger usano il social network per “spammare” i post dei loro blog e solo in seconda battuta creano dei contenuti originali per la pagina del social network; gli altri, pure se hanno magari un blog aperto per curiosità, usano il social come strumento di creazione di status o twit originali; i blogger “vecchia maniera” (chiamiamoli così) tendono a portare la discussione dell’argomento nei commenti del loro blog; gli altri commentano e discutono quasi esclusivamente sul social anche il post comparso sul blog: in sostanza, i blogger di vecchia generazione (e la definizione fa ridere, perché le “generazioni” si sono formate nel corso di nemmeno due anni) vivono il social come appendice del blog; gli altri vivono il blog come appendice del social. Sono due tribù che bazzicano lo stesso territorio, ma hanno approcci diversi.

L’abbandono da parte della grande massa della forma-blog, perché il social dà loro più soddisfazione, ha però creato contraccolpi anche nella blogosfera. Che, si nota, si sta professionalizzando. I blogger di un qualche successo, anche quando non sono nati come professionisti della comunicazione (giornalisti, opinionisti, etc.) – o, quelli che magari, essendo già professionisti della comunicazione, avevano però originariamente aperto il blog come “privati”- ora si trovano a dover rendere il loro sito più professionale: se vogliono limitarsi a “cazzeggiare”, si trasferiscono anche loro sul social network, come tutti.

La blogosfera in senso stretto sta diventando un luogo di comunicazione “seria”, dove il dilettante allo sbaraglio si trova come un pesce fuor d’acqua. Il giro dei blog che contano è formato da gente che comunica per professione, anche quando ha imparato il mestiere della comunicazione facendosi le ossa con il blog. I blogger di successo diventano opinionisti delle testate giornalistiche, oppure scrittori, o conduttori televisivi o politici; in un certo senso si stanno trasformando e si comportano come una aristocrazia del web. Come tutte le aristocrazie, stanno diventando una casta chiusa: mentre fino ad un paio di anni fa anche per lo sconosciuto di turno entrare nel giro dei “grandi” blogger era relativamente facile (e l’ascesa del Nuovo Mondo di Galatea è un esempio pratico di tutto ciò), ora i blogger che contano si linkano quasi esclusivamente fra loro, si rispondono fra loro, spesso addirittura non rispondono ai commenti dei lettori, hanno la blogroll blindata, e sono diventati più autoreferenziali, sia sul blog che nei social. La massa – che in Italia non è ancora la “grande massa”: quella resta a guardare la tv – legge, quando legge i blog, ma non ha in realtà grandi occasioni di interagire con i “signori del web”, non più di quanta ne abbia di interagire con l’opinionista del grande quotidiano cartaceo. Al massimo, sul social posta status inerenti la propria vita privata, commenta post altrui, aderisce a gruppi più o meno sciocchi (dal “Viva Tartaglia” al “Voglio trovare 10mila persone che amano i bignè”) o si iscrive ad iniziative come il NoBDay che però sono pubblicizzate tramite il social, ma non nascono, o nascono solo in parte, da esso.

Pur non capendo granché di internet, i nostri politici, con il fiuto che gli è proprio, hanno capito l’aria che tira: si preoccupano oggi di censurare Facebook ben più dei blog: il blog, che non è mai stato un vero e proprio fenomeno di massa, si sta però ulteriormente trasformando in qualcosa che è decisamente per l’élite. Il numero di utenti che leggerà i signori della blogosfera direttamente è lo stesso che, nei tempi passati, leggeva gli editoriali del grande quotidiano e il post del blog è comunque uno spazio di possibile riflessione più approfondita rispetto allo spot di uno status o di un twit:la massa è su Facebook, su Facebook, eventualmente, si troveranno pillole dei blog o delle comunicazioni create per il social network, che parcellizzate e diffuse, possono avere una diffusione capillare e ridondante, virale. Ridotte a slogan o a puro moto di pancia, deprivate di un contesto più ampio che rinvii ad un ragionamento più approfondito, possono acquistare semmai incisività e forza persuasiva, martellante.

Nel frattempo, i blog ed i blogger diventeranno qualcosa d’altro, se vorranno sopravvivere: rubriche ed opinionisti, di vario genere e di nuova natura, più settoriali, meno amatoriali, se vorranno attirare il pubblico dei lettori via dal mainstream del social network, o crearsi una propria platea, per quanto piccola, di appassionati. Non più brutti o più belli di quello che erano prima: ma diversi sì.