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mercoledì 21 maggio 2014

Collasso globale e Colonie resilienti

 Una riflessione di Alessandro Corradini sulle cause ultime del collasso in corso (che ci si ostina ancora a chiamare "crisi")
Di Alessandro Corradini

Siamo pieni zeppi di problemi spaventosi:

-          picco del petrolio,
-          cambiamenti climatici,
-          crollo della biodiversità,
-          crisi economica inarrestabile,
-          mafie e corruzioni dilaganti,
-          disoccupazione tecnologica,
-          armi di distruzione di massa (e convenzionali),
-          collasso oceanico (acidificazione, innalzamento dei livelli, anossia, inquinamento da microplastiche, collasso delle specie ittiche, ecc...),
-          inquinamenti d'ogni genere e tipo,
-          mancanza di istituzioni di governo globali a fronte di gravi problemi su scala planetaria,
-          crescenti diseguaglianze sociali, ecc... ecc... ecc...

Un sacco di problemi!

Tutti fenomeni concreti e pervasivi. Non catastrofismo, ma rilevazione oggettiva di un’autentica catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. Per quanto gravi e spaventosi, tuttavia, tali fenomeni sono sintomi, non cause. Risalendo le catene di causa-effetto che generano questa spaventosa moltitudine di devastazioni, si può risalire ad una sola causa iniziale che le accomuna tutte. L’identificazione di un’unica causa scatenante semplifica enormemente lo scenario complessivo, ma c’è poco da rallegrarsene, poiché tale origine riguarda un fenomeno così radicato ed onnipresente da essere pressoché intrattabile. Mi riferisco ai soldi. Il problema, per inciso, non è che ne abbiamo pochi. Il problema è che ci ostiniamo ad usarli come mezzo di regolazione generale dell’economia nonostante ogni evidenza scientifica ce lo sconsigli!

Il collasso globale a cui stiamo assistendo increduli da ormai sei anni (e che ancora viene eufemisticamente chiamata “crisi”) altro non è che l’accumulo e l’intrecciarsi di tutti quei gravi sintomi generati da un’infinità di comportamenti distorti connessi all’uso del denaro. Di fatto tale pratica consiste in un groviglio di usanze socialmente ed universalmente accettate che danno forma a tutta la nostra realtà, imbrigliandola in una oppressiva varietà di relazioni impersonali che allontanano i decisori dalle conseguenze delle loro decisioni. Questo complesso intreccio è riconducibile a 3 elementi principali:

1)     la massimizzazione della ricchezza monetaria (sia in termini privati, sia in termini collettivi, ossia di PIL),
2)     l’uso del debito (a cui oggi è connesso tra l’altro la creazione stessa della moneta),
3)     gli scambi commerciali (ossia le logiche di mercato e la speculazione).

Il mix di questi tre elementi comporta da un lato una forte de-responsabilizzazione sia degli individui sia delle comunità e dall’altro lato una feroce competizione causata da una scarsità indotta attraverso una redistribuzione della ricchezza completamente iniqua. Una trattazione dettagliata del perché l’uso del denaro, del debito e delle logiche di scambio commerciale abbiano effetti tanto devastanti sulle sorti del nostro pianeta richiederebbe tuttavia un’esposizione troppo estesa e complessa per essere qui riportata. Per chi volesse farsene un'idea approssimativa, potrà trovare qualche interessante spunto di riflessione qui , qui , qui, qui, qui, e qui. Questo microscopico elenco, tutt’altro che esaustivo ed omogeneo, non è che una capocchia di spillo dei motivi per considerare il “Business As Usual” (o BAU, ovvero il solito modo di condurre gli affari) come un vero e proprio "ordigno fine-di-mondo".

Ma non è questo il punto.

Ammesso e non concesso che si condivida questa “radicale” critica all’economia imperante, esistono alternative pratiche all’uso del denaro e dei suoi corollari? Se sì, è possibile realizzare concretamente tali opzioni?

Iniziamo col dire che ogni eventuale alternativa è destinata ad apparirci strana ed aliena. Non può che apparirci così, abituati come siamo ad un’unica e monolitica realtà economica. La quasi totalità degli esseri umani, negli ultimi millenni, sono nati, cresciuti, vissuti e morti in una società monetaria e/o basata sul debito. La stratificazione ed il consolidamento culturale, psicologico e politico dell’attuale paradigma è quindi colossale. Pensare di uscirne collettivamente e rapidamente da questo paradigma appare perciò un’impresa improba e folle. Il pianeta, però, è un paziente ormai grave ed il nostro futuro è fortemente incerto. La comunità scientifica internazionale ci sta avvertendo che siamo ormai ad un passo dalla soglia che conduce alla sesta estinzione di massa del pianeta (e forse abbiamo già iniziato a varcare tale soglia). Un cambiamento radicale è quindi divenuto necessario ed urgente. Serve una cura drastica, ma soprattutto serve una cura che ci appaia molto… “strana”. Non per il gusto di stupire, ma poiché, come sostenne una volta Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato”. Tentativi di riformare, regolarizzare ed addomesticare l’attuale economia monetaria e finanziaria, oltre che tardivi, al momento, risulterebbero probabilmente vani e persino controproducenti. È più probabile, infatti, che i grandi capitali, grazie al loro strapotere, addomestichino facilmente qualsiasi tentativo di riforma, piuttosto che il contrario.

Ci serve disperatamente un’opzione sufficientemente radicale e “strana”, ma quale?

La più ovvia e razionale è l’abbandono completo (e sufficientemente repentino) dell’uso del denaro, del debito e degli scambi commerciali. L’intera economia monetaria andrebbe sostituita da una più pratica e realistica economia basata sulle risorse. Le risorse (naturali e non) sono l'unica vera ricchezza materiale. La loro monetizzazione al contrario, per quanto importante all'interno dell'attuale paradigma, è solo un'astrazione mentale funzionale alla ripartizione della ricchezza globalmente presente sul pianeta. La moneta da accesso alla ricchezza materiale, non è la ricchezza materiale, né la può creare “magicamente dal nulla”. Poiché le risorse naturali, a seguito del superamento della capacità di carico del pianeta, sono in via di rapido esaurimento, parrebbe logico strutturare l'economia, la politica e la società in modo da opporsi strenuamente a tale esaurimento. L’idea di fondo è quindi banale: affinché un sistema economico sia sostenibile sul lungo termine, le risorse a sua disposizione devono essere l’elemento da cui partire per regolare produzione e consumi. Non è certo un’idea particolarmente nuova, ne hanno già parlato noti movimenti come il Venus Project e il Zeitgeist Movement (su cui non intendo esprimere giudizi di sorta). L’idea circola ormai da anni e sembrerebbe logico attendersi che l’attuale collasso economico favorisca un suo approfondimento ed un serio e vasto dibattito. Eppure nulla è ancora accaduto in tal senso. Tutto tace, persino a livello teorico ed accademico. Ciò avvalorerebbe l’idea che “mettere in discussione denaro, debito e logiche di scambio” equivalga a pretendere un cambio di prospettiva semplicemente troppo estremo per l’attuale cultura dominante. Movimenti di massa simili alla cosiddetta “Primavera Araba”, agli indignados e ad Occupy Wall Street, ma in senso apertamente anti-monetarista, per ora, non se ne vedono. Si parla di libertà e democrazia, spesso di equità economica, ma non di riformare il sistema economico fin dalle sue fondamenta. Ciò è ritenuto quasi universalmente un’utopia. I pensatori e gli intellettuali di ogni genere e tipo sembrano fermi ad un: “No grazie! Ci siamo già passati, si chiama comunismo e non funziona”. Il fatto che l’economia delle risorse non abbia nulla a che fare con i regimi del cosiddetto “socialismo reale” (i quali mai e poi mai hanno abolito l’uso di denaro, debiti e scambi commerciali) non smuovere minimamente il dibattito. Sia l’immaginario collettivo, sia la classe intellettuale, sia quella politica sembrano completamente soggiogati da un falso e cinico “realismo” imposto dallo stesso sistema economico che ormai nessuno riesce più a gestire e nemmeno moderare. La nostra civiltà è ostaggio di un pseudo-realismo che ritiene plausibile e doverosa una crescita economica infinita utilizzando le risorse finite (ormai quasi letteralmente) del pianeta.

Quindi come se ne esce?

Se un ostacolo è troppo grande per scavalcarlo, si può sempre girarci attorno. La cultura di massa e le istituzioni politiche e sociali sono ormai del tutto impermeabili e refrattarie verso proposte politiche pragmatiche. Queste vengono confuse sistematicamente per estremismi, stramberie ed utopie. È quindi necessario agire per una via meno diretta, cioè quella della colonizzazione. Il nome “colonizzazione” è tristemente associato a pratiche di sfruttamento e dominio. La colonizzazione a cui qui mi riferisco, tuttavia, non ha nulla a che vedere con quella triste esperienza storica. Qui, con “colonizzazione”, ci si vuol riferire semplicemente ad una modalità di diffusione dell’economia basata sulle risorse, attraverso l’inoculazione di detto sistema economico all’interno di quello esistente. Per disfarsi delle logiche monetaristiche, del debito e dello scambio e passare al nuovo paradigma si deve raccogliere subito il consenso immediatamente disponibile. Date le circostanze, sarà un consenso fortemente minoritario e “di nicchia”, ma rapidamente ed economicamente organizzabile. In termini pratici, parliamo quindi di un consenso che tale proposta può raccogliere e concentrare agevolmente in un solo luogo per formare appunto una colonia iniziale, il cui scopo sia quello di fungere da esempio e da “replicatore” per nuove future colonie a lei analoghe. Non potendo convincere e convertire l’economia globale per intero, si parta convertendone un pezzetto alla volta, partendo da chi è già convinto, in modo da minimizzare i tempi di realizzazione da un lato ed i costi di un’eventuale inazione dall’altro. In tal modo si evita di sprecare tempo, risorse, talenti e speranze nell’affannoso ed illusorio tentativo di risolvere tutti i nostri problemi tramite la creazione di un consenso vasto e diffuso. Ci si scorda facilmente infatti che un consenso vastissimo non solo è estremamente improbabile, ma persino inutile. Perché inutile? Beh, diciamo così: esiste un vastissimo consenso planetario che considera la fame nel mondo uno scandalo inaccettabile, ma questo non ha ancora eliminato “lo scandalo”. Meglio una nicchia motivata ed attiva che una massa concorde, ma dissipativa ed inamovibile (soprattutto se per rendere la massa “concorde” si devono spendere colossali risorse mediatiche, finanziarie, politiche e temporali). Per citare l’antropologa Margaret Mead:

« Non dubitate che un piccolo gruppo di cittadini coscienti e risoluti non possa cambiare il mondo. In fondo è così che è sempre andata ».

Il concetto di “colonia” parte da questa constatazione storica per saltare dalla fase di analisi e discussione collettiva a quella dell’azione, nella speranza di spezzare l’attendismo lassista e suicida su cui sembra essersi ripiegato il mondo.

Ma cosa sarebbe una “colonia”  di preciso?

Beh, una colonia, prima di tutto, sarebbe una comunità di persone, una comunità coesa attorno ad idee economiche rigidamente coerenti con l’effettiva disponibilità e la massimizzazione delle risorse. L’attuale economia è tutta concentrata sulla massimizzazione monetaria a noi tanto famigliare e grazie a questa spacca la società sottostante in una miriade di strutture ed individui separati da vorticosi fiumi di concorrenza, diffidenza e contrattazione. Con le “colonie” parliamo invece di realtà organizzative in cui aspetti economici, tecnico-scientifici e politici non sono separati e conflittuali, bensì fusi insieme in un approccio istituzionalmente pragmatico e razionalista. Per giungere a tale traguardo occorre possedere un alto grado di complessità interna. Una colonia quindi non ha nulla a che vedere con una minuscola comunità, basata sul pauperismo o su filosofie analoghe a quelle dei “figli dei fiori” o della “New Age”. Le colonie sono comunità dalla dimensione minima di diverse centinaia di persone (senza un limite massimo) e caratterizzate da una densissima consistenza tecnologica, scientifica ed organizzativa.

Una colonia sarebbe qualcosa di mai visto prima. Sarebbe una comunità opulenta, determinata ed acculturata. Sarebbe però anche un luogo fisico attraente, un sistema produttivo iper-efficiente ed un micro-mondo con una struttura organizzativa mai sperimentata prima. Una realtà assolutamente NON spontanea, ma frutto piuttosto di un accurato e laborioso lavoro di progettazione, studio e pianificazione. Un lavoro decisamente impegnativo, collettivo e multidisciplinare, al punto da potersi definire olistico e perpetuo. Le risorse risparmiate dal “rinunciare a convincere tutti” a creare un mondo migliore devono essere in gran parte spese in questa intensissima fase di progettazione e riprogettazione perenne. Per questo stesso motivo non è possibile dare ora una rappresentazione completa e precisa di cosa sarà una colonia. Una descrizione puntuale sarà possibile solo dopo quella fase di progettazione multidisciplinare iniziale che ancora non è mai avvenuta.

Da un punto di vista generale e concreto, tuttavia, si può già dire che una colonia sarà un luogo in cui le cose di cui si necessita non si comprano, ma si prendono liberamente in prestito senza che avvengo nessun tipo di scambio commerciale tra le parti. Anche per beni di consumo quali alimenti, bevande, vestiti e quant’altro, non dovrebbe esserci nessuno scambio, né di moneta, né di merci, né di diritti od altre utilità. Tale economia, ai nostri occhi, può apparire a prima vista come una società inauditamente generosa. Si tratta tuttavia di un’illusione: si può tagliar gole per una goccia d’acqua, se ci si trova persi in un deserto; regalarne a litri a degli sconosciuti parrebbe follemente generoso in quella situazione, ma basta uscire dal deserto per considerare immediatamente tale morbosa attenzione per l’acqua una follia. L’essere umano è un animale fortemente adattativo e se cambia completamente il contesto in cui opera, allora cambia anche completamente il suo modo di pensare e comportarsi. Uscendo dall’economia di scambio basata sul denaro e sul debito ci si sbarazza anche di gran parte di quell’egoismo e quella bramosia di soldi che ci contraddistingue ora. Non si tratta di rendere “perfetti” gli esseri umani privandoli delle normali pulsioni egoistiche (operazione impossibile e/o sconveniente). Si tratta piuttosto di creare un contesto “migliore” per facilitare comportamenti positivi ed auspicabili. Quel contesto “migliorativo” sarebbe appunto la colonia.

Le prime colonie, in particolare, dovendo fungere da esempio e supporto per tutte le colonie future, dovranno essere lussureggianti, sovra-strutturate, riccamente attrezzate, tecnologicamente avanzatissime, risolute nel perseguire gli obiettivi comuni e profondamente acculturate (soprattutto sul piano tecnico e scientifico). In poche parole dovrebbero essere realtà… fortemente elitarie. Può suonare ingiusto, ma si tratta di una necessità, poiché su di esse graverà la responsabilità di garantire il successo dell’intero processo di colonizzazione (con tutto ciò che questo implica a livello globale). Le prime colonie oltre a favorire l’intera opera di colonizzazione con la loro “robustezza” devono anche apparire attraenti sotto ogni possibile punto di vista: il ché implica possedere sistemi produttivi iper-efficienti, sistemi organizzativi impeccabili, un’estetica affascinante, una convivialità seducente, ecc... Chi non è un colono deve desiderare ardentemente di poterlo divenire un giorno. Guardando una colonia, dall’esterno si deve rimanere sbalorditi al punto di sforzarsi di voler sapere e capire come funziona prima e di volerne far parte dopo. Creare una tale “attrattività estrema” partendo dall’economia monetaria in cui attualmente ci troviamo implica inevitabilmente creare delle enclavi inizialmente molto elitarie. Tale difetto iniziale andrebbe però via via stemperandosi ed infine sparirebbe completamente man mano che le colonie si moltiplicano. Scopo delle colonie, infatti, rimarrebbe ovviamente quelle di creare sempre nuove colonie e di sostenersi vicendevolmente in modo da espandere ed irrobustire l’economia non-monetaria, non-creditizia e non-mercantilista a tutto vantaggio delle sorti del pianeta, ma anche a proprio vantaggio. Ma mano che le colonie si moltiplicano, l’accumulo di conoscenze, esperienze e risorse condivise rende i costi di fondazione delle nuove colonie decrescenti e la necessità di vincere le resistenze psicologiche e l’incredulità dei non-coloni, meno pressante. Ciò renderà le nuove colonie sempre  meno elitarie e sempre più “ordinarie” ed inclusive.

L’atto stesso della colonizzazione, in quest’ottica, è quindi opposta al concetto storico di violenza o sfruttamento del colonizzato. Al contrario la colonizzazione dell’economia attuale da parte di economie basate sulle risorse appare di fatto come una liberazione ed un’emancipazione dell’intera umanità basata sull’adesione spontanea e volontaria al nuovo paradigma. Non è solo umanità e benevolenza a chiedere un tale comportamento, lo chiede anche la logica: le persone motivate sono più efficienti ed efficaci di quelle indotte o costrette ad operare in un modo che non le rappresenta. L’adesione spontanea, oltre che democraticamente corretta, è fondamentale per una società che brama un efficientismo senza precedenti come appunto dovranno fare le colonie.

Ma perché le colonie abbiano successo devono avere effettivamente un’economia più efficiente di quella monetaria. E sarà così.

Perché?

Saranno efficienti anche ma, non solo per la leva motivazionale e l’approccio scientifico/razionalista che le modellerà. Essendo organizzate per massimizzare le risorse (non solo quelle materiali come l’energia e le materie prime, ma anche quelle umane, immateriali ed organizzative), all’interno delle colonie è possibile strutturare produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi con modalità molto difficili od impossibili da attuare e/o sostenere in modo sistematico all’interno di economie monetarie/creditizie/mercantiliste in cui attualmente noi tutti viviamo.

Farò qui 5 esempi per rendere quest’ultimo concetto meno nebuloso e più concreto. Tali esempi non sono da considerarsi esaustivi, ma piuttosto minimali e basilari. Essi hanno uno scopo meramente illustrativo volto a facilitare una visione di come le cose potrebbero funzionare dentro un tale “strano” sistema economico e allo stesso tempo per mostrarne i possibili vantaggi e peculiarità. Di seguito parlerò quindi di:

1)     Omniteche;
2)     Tassazione temporale;
3)     Efficienza sostenibile;
4)     Propagazione accelerata delle conoscenze;
5)     Prevenzione sociale.

                                                  
Le “OMNITECHE”

Una biblioteca è un’istituzione che presta libri, una videoteca una che presta filmati ed una ludoteca un’istituzione che presta giocattoli. Nulla di strano in questo. Estendendo tale concetto, tuttavia, si può anche immaginare un’istituzione che presta qualsiasi cosa: un’omniteca per l’appunto. Le omniteche sono entità alquanto improbabili in un sitema economico di mercato poiché la loro presenza è in antitesi alla concezione di scambio economico di mercato. In un’economia basata sulle risorse, tuttavia, tale istituzione potrebbe non solo esistere, ma essere l’istituzione più diffusa per eccellenza, così come ora lo sono i negozi per noi. Come abbiamo detto, infatti, una colonia è un luogo in cui i beni di cui si necessita non si comprano, né si noleggiano, né si barattano o scambiano.

Una biblioteca non può prestare libri che non ha e di solito lo fa seguendo determinate regole interne (presta solo ai tesserati, un numero massimo di libri, da restituire entro un limite massimo di tempo, ecc…) e così pure l’omniteca non può prestare beni che non possiede e quando li presta lo fa seguendo delle proprie regole (che rispecchiano la strategia dell’intera colonia per preservare o accrescere il più possibile le risorse globalmente disponibili all’interno di quel micro-mondo).

A differenza della biblioteca però l’omniteca presta di tutto e non solo libri, il ché implica anche beni di consumo come cibo, acqua, vestiti, medicinali. Anche per i beni di consumo, nella colonia, si mangia, beve, ecc… liberamente e gratuitamente, ma sempre e solo all’interno della disponibilità e sostenibilità delle risorse collettive, quindi all’interno delle regole imposte dall’ominiteche. Parliamo di regole condivise, appositamente architettate e costantemente perfezionate dalla colonia nella sua totalità al fine di minimizzare sprechi ed abusi.

Sul piano fisico e logistico, non è detto che un’omniteca debba essere intesa come un unico ed immenso magazzino con tutti i possibili beni concepibili. Può essere intesa piuttosto come un a serie di punti di distribuzione variamente disposti e specializzati, ma facenti tutti capo ad una sola autorità: la colonia stessa. Ogni colono non è quindi solo un utente delle omniteche, ma anche un proprietario, un gestore, un amministratore, un controllore. Questa sovrapposizione ed alternanza di ruoli deve far leva su un senso di appartenenza e di responsabilizzazione perenne che coinvolta tutti i coloni, senza eccezione alcuna.

Se la competizione commerciale offre forse i suoi vantaggi, anche la collaborazione evoluta sicuramente ne ha di importanti, ad esempio: in un’economia basata sulle risorse, se lascio morire di fame un mio simile (o anche solo se lo mantengo in uno stato sub-ottimale), non sto solo commettendo qualcosa di moralmente discutibile, sto anche danneggiando il mio stesso patrimonio, poiché quella persona, la sua forza fisica e le sue competenze sono parte della mia stessa ricchezza (che è poi quella di tutti gli altri coloni). Allo stesso modo se un colono distruggesse un bene della colonia, farebbe non solo un atto eticamente discutibile, ma danneggerebbe sé stesso in modo del tutto paragonabile a quello di un appartenente ad un nucleo famigliare che devasti i beni della propria famiglia. Il mondo e gli esseri umani non sono perfetti ed eventi deleteri possono sempre accadere, ma è evidente che la struttura sociale della colonia, analogamente a quella della famiglia rendono più improbabili incidenti del genere. Un contesto che, ai diritti legati alla proprietà privata, sostituisce, come perno dell’intera economia, il dovere di conservare, arricchire e condividere beni comuni, è un contesto che tende a minimizzare “incidenti” invece abbastanza frequenti in una realtà come la nostra. In quest’ultima è nettamente distinto “ciò che è mio da ciò che è tuo” e quindi anche i pesi e gli oneri su cui ricade ogni danno accidentalmente o volutamente arrecato. Ciò causa una tensione perenne verso la competizione e la sfiducia reciproca anche quando queste risultano dannose od eccessivamente onerose.

La pressione sociale esercitata dalla collettività coloniale, tramite le regole dell’omniteche, sui singoli coloni, non è un’intrusione dispotica all’interno delle libertà personali, così come la fruizione gratuita degli stessi beni e servizi non è un eccesso di prodigalità. E’ semplicemente la logica conseguenza che scaturisce dalla piena consapevolezza del fatto che non ci possono essere “scelte personali” completamente slegate dalla disponibilità collettiva delle risorse condivise. In ultima analisi, infatti, indipendentemente dal sistema economico adottato, le risorse presenti su un pianeta finito devono essere obbligatoriamente finite e qualsiasi “scelta personale” che finga che siano infinite è semplicemente un’illusione.

La presenza capillare delle omniteche rende il concetto stesso di proprietà privata non inutile, né proibita, ma certamente marginale. La ricchezza personale e quella collettiva divengono quindi tendenzialmente la stessa cosa. D’altra parte essere liberi, in funzione di espedienti connessi a regole condivise, di poter distruggere le altrui potenzialità, per non dire l’intero pianeta ed il futuro delle generazioni a venire ad esso connesso, in una civiltà degna di questo nome, non dovrebbe far parte delle opzioni considerate tollerabili.

Le omniteche, cioè i bazar che “regalano” o prestano i beni a disposizione dell’intera economia, non sono l’albero della cuccagna né una forma di comunismo rivisitato. Sono il trionfo della logica razionalista, dell’onestà intellettuale e della collaborazione civile. Le omniteche benché possano apparirci utopiche, sono solo un sistema di distribuzione delle risorse economiche la cui estensione reale oltrepassa i confini fisici dell’omniteca stessa e permea l’intera colonia sotto forma di pressione sociale, controllo distribuito e partecipazione attiva (il sistema immunitario della colonia che garantisce la possibilità di mantenere il sistema nel lungo periodo).

La TASSAZIONE TEMPORALE

In un’economia monetaria, un sistema di tassazione perfettamente egualitario ed equilibrato pare un obiettivo quasi impossibile da raggiungere. In un colonia, priva di denaro, invece è piuttosto semplice istituire un sistema di tassazione perfettamente equo. Dato che non circolano soldi e che le 24 ore giornaliere sono uguali per qualsiasi colono, porre una quota di tale tempo ad esclusiva disposizione delle esigenze della collettività è un modo estremamente semplice, verificabile e pratico per organizzare una tassazione non-monetaria. Eliminando la tassazione monetaria, si eliminano anche tutti gli intrighi politici, le sperequazioni sociali, i costosi sistemi di regolamentazione e controllo, le farraginose e gigantesche infrastrutture burocratiche e tutte le deformazioni di mercato legate alla concorrenza scorretta che caratterizzano le economie monetarie in merito all’annosa questione delle tasse nonché alla loro evasione ed elusione. Tali costi ed inefficienze sono semplicemente estranee ed inapplicabili ad un’economia basata sulle risorse che operi tassazioni temporali.

Benché teoricamente semplicità, efficienza ed equità siano raggiungibili anche tramite la “normale” tassazione monetaria, all’atto pratico, esse sono difficilmente raggiungibili nella realtà quotidiana e comunque non senza asprissime lotte sociali. Il fatto è che, in un’economia monetaria, le differenze di reddito e patrimonio, cioè le differenze monetarie tra individui, sono la misura stessa della differenza sociale e materiale che passa tra l’essere avvantaggiati o svantaggiati rispetto agli altri. La tassazione, in una società che fa delle differenze monetarie la principale leva motivazionale e competitiva, non può risultare miracolosamente affrancata dalla faziosità ed arbitrarietà che un tale atteggiamento discriminatorio inevitabilmente implica. Viceversa l’inclusione di una quota fissa di tempo da parte di ogni persona esistente nell’economia, all’interno dell’apparato pubblico coloniale, ha il vantaggio di aumentare enormemente il controllo distribuito ed una partecipazione non solo “premurosa” ma anche tecnicamente consapevole della “cosa pubblica”. Un tale livello di coinvolgimento collettivo è semplicemente impossibile in un’economia in cui circola denaro. In essa, infatti, l’apparato statale ed i cittadini sono due entità disgiunte e sovente contrapposte. Da tale separazione scaturiscono inevitabilmente una lunga serie di dinamiche di coercizione, collusione e corruzione che degradano gravemente le potenzialità teoriche dell’economia monetaria nel suo complesso e ,al tempo stesso, gettano le basi per un clima di insicurezza, sfiducia e contrapposizione che paralizza i vari attori attorno a comportamenti egoistici ed opportunistici tipicamente di breve o brevissimo respiro. 
                 
L’EFFICIENZA SOSTENIBILE

L’introduzione della produzione industrializzata ha creato un’abbondanza senza precedenti nella storia. Allo stesso tempo però, rimanendo in economie monetarie, si è presto incappati in un colossale problema di inquinamento e di sperpero sistemico di risorse fisiche legato a fenomeni industriali come l’obsolescenza programmata, l’usa-e-getta e tante altre modalità di produzione, consumo o speculazione finanziaria volte unicamente a massimizzare la movimentazione complessiva del denaro a scapito di tutto il resto (sopravvivenza a lungo termine dell’intero pianeta compresa). La concorrenza economica derivante da “l’uso di denaro, del debito e dello scambio commerciale” spinge, infatti, gli individui a fomentare in ogni modo (ed ad ogni costo) i propri simili a consumare sempre di più (contribuendo a fomentare un perverso, frustrante e perenne ciclo di illusione ed insoddisfazione). I soggetti economici che non si adeguano a tale esasperazione grottesca del consumo, nella nostra economia, risultano competitivamente inadeguati e quindi tendono purtroppo ad incappare nel fallimento economico a cui sono poi associati il discredito sociale e un restringimento delle libertà di scelta a livello personale. La pressione sociale verso una tale deviata omologazione culturale e quindi fortissima.

Tale tendenza collettiva sfocia in una colossale distruzione di risorse (energia e materia) priva di una reale utilità sia per i singoli sia per la collettività nel suo complesso. I bisogni ed i desideri spontanei hanno un grado di disomogeneità e limitatezza che mal sia adatta sia alla produzione di massa sia alla religione “della crescita economica infinita”. Tali bisogni sono quindi stati rapidamente affiancati da ben più numerosi e lucrosi “bisogni e desideri indotti”, il cui soddisfacimento non implica una reale utilità, ma sfortunatamente implica un reale consumo di preziose risorse, cioè uno spreco. A tale insostenibile danno, si aggiunge poi un corrispondente livello d’inquinamento legato alla produzione prima ed al consumo poi, fino allo smaltimento dei beni prodotti con tali logiche di brevissimo respiro.

Tale assurdo e triste comportamento collettivo non è strettamente legato a bontà d’animo o all’intelligenza dei singoli. Per sopravvivere e prosperare (ma anche più banalmente per essere socialmente accettati) all’interno di un’economia monetaria si è spronati ad agire così. Se però si abbandona l’uso di denaro, del debito e degli scambi commerciali, allora tutto ciò che brucia risorse senza produrre un’utilità reale smette d’essere un cosiddetto “male necessario” per tornare ad essere quel che in effetti è: solo e soltanto “un male”. Non dovendo vendere qualcosa né comprare altre cose, non v’è necessità di esasperare, ingannare e convincere gli altri ad espandere al massimo i propri consumi. Anzi, in un economia delle risorse, meno i singoli consumano a parità d’utilità e meglio è per tutti. Il concetto stesso di rifiuto, spreco od inquinamento sono antitetici ad un’economia volta a massimizzare le risorse poiché tali concetti ne sono una negazione di fatto. Mentre in un’economia consumista c’è un interesse strategico a ché gli altri siano perennemente insoddisfatti, in un’economia “coloniale” v’è un interesse strategico a ché gli altri siano il più soddisfatti possibile. La maggior efficienza a cui il sistema delle colonie spinge non riguarda perciò solo l’uso efficiente delle risorse materiali, ma anche lo sviluppo armonico ed il benessere delle persone (intese sia come lavoratori, sia come consumatori, sia come persone e basta). In un’economia “coloniale”, ad esempio, venendo meno il rapporto reddito/consumo, decade anche l’enorme alibi psicologico, politico e sociale con cui si accetta l’inaccettabile in nome di una piena occupazione (per altro impossibile da realizzare pienamente in società altamente tecnologiche).

Inoltre nelle economie monetarie ogni reale incremento d’efficienza raggiunto, traducendosi in una maggior disponibilità del bene risparmiato, porta sovente al paradosso di Jevons ovvero ad un maggior consumo collettivo di tale bene (poiché la maggior disponibilità complessiva del bene risparmiato comporta un suo abbassamento di prezzo che ne favorisce il consumo). Un’economia coloniale, al contrario, tende spontaneamente a tradursi in una forma di economia circolare in cui ogni risorsa è rimessa “in circolo” anziché smaltita anticipatamente e dannosamente in una discarica o in un  “termovalorizzatore” (che rappresentano la fase finale della consueta logica lineare di estrazione, lavorazione, consumo nelle economie monetarie). La circolarità dei beni e servizi, in una colonia, non è d’altra parte ostacolata da interessi privati che potrebbero vedere in tale virtuosismo un attentato ai loro profitti, poiché il concetto stesso di “profitti” non è contemplato, mentre quello di utilità sì (ed essa è collegata inesorabilmente alle risorse reali e quindi al loro sfruttamento razionale e moderato).

La PROPAGAZIONE ACCELERATA DELLE CONOSCENZE

Un’economia monetaria pone drastici vincoli alla libera circolazione della conoscenza. Vincoli quali, ad esempio, i diritti d’autore, i segreti industriali, i brevetti, ecc… Tali tutele legali sono di fatto un freno socialmente accettato che ferma o rallenta (a seconda dei casi) la circolazione di idee e conoscenze. Tale vincolo però svanisce, se si eliminano i soldi, il debito e lo scambio dall’economia. Svanendo quest’ultimi, infatti, svanisce anche la necessità di porre tutele legali (e non) al loro sfruttamento economico/monetario. Inoltre, dato che la psicologia ha dimostrato che la creatività è sfavorita ed inibita dalle mere ricompense in denaro, ingabbiare la produzione intellettuale, scientifica e tecnologica all’interno di logiche monetarie deprime oltre alla loro circolazione anche le potenzialità produttive in tali ambiti. Come se tutto ciò non bastasse, va poi ricordato che, nella nostra attuale economia, libera ed imparziale circolazione della conoscenza tecnica lede gravemente i vantaggi competitivi derivanti dalle asimmetrie informative di mercato. Attualmente, retorica e buoni propositi a parte, esiste quindi una convenienza diffusa a mantenere le conoscenze tecniche al livello minimo necessario a far funzionare l’economia monetaristica stessa. La circolazione delle idee, delle conoscenze scientifiche e di quelle tecnologiche è poi ulteriormente ostacolata, nell’attuale economia, da logiche volte ad ammortizzare pienamente gli investimenti in specifiche unità produttive. Nelle economie attuali, esiste inoltre la necessità di massimizzare i profitti tramite il rilascio sul mercato di prodotti con numerose versioni intermedie, caratterizzate da piccoli miglioramenti graduali e da incompatibilità possibilmente totali rispetto ai modelli precedenti, in modo da spingere i consumatori ripetuti ad acquisti ripetuti con la maggior frequenza possibile a fronte di costi di ricerca e sviluppo mantenuti il più possibile bassi. Tutte queste logiche distorsive perdono completamente utilità e senso in un’economia che si basa sulle risorse anziché sul lucro monetario derivante dal loro scambio.

Per motivi analoghi a quelli sopraccitati, non solo le conoscenze già disponibili sono ostacolate dalle logiche monetaristiche, ma anche l’uso dei dati grezzi lo è. Dal momento che i singoli soggetti economici non desiderano che altri sappiano cose che li possano danneggiare. Non vivendo in un ambiente economico che premia la collaborazione, l’attuale tendenza generalizzata è quella di tenere i dati raccolti (di qualsiasi tipo essi siano) a proprio esclusivo vantaggio, perdendo così gli infiniti vantaggi che deriverebbero invece da una loro aggregazione, integrazione e/o incrocio. Questo aspetto, dati i bassissimi costi di calcolo già oggi raggiunti, implica un danno latente immenso per le attuali comunità.
                         
Nonostante l’economia monetaria abbia creato un mito popolare del progresso scientifico e tecnologico, facendo credere che esso possa risolvere praticamente ogni cosa, la realtà è che essa si oppone fortemente a tale progresso, non di rado arrivando persino ad impiegare ingenti risorse finanziarie per screditare la comunità scientifica in modo da preservare forme di business altrimenti screditati (il caso delle lobby del tabacco sia preso a caso esemplare, ma non unico, di tale tendenza). Inutile dire che anche questi aspetti illeciti e/o illegali perdono di valore e significato se si esce dalle logiche basate sullo scambio commerciale.

Sul lato opposto, la conoscenza, in una economia coloniale, sarebbe la più preziosa delle risorse, poiché essa è di fatto l’unica che può espandersi senza limiti e che comporta ricadute a cascata su tutte le altre risorse. 

La PREVENZIONE SOCIALE

Un’economia monetaria è un’economia piena di contrasti, conflitti d’interesse e contraddizioni. L’interesse di una buona salute pubblica, ad esempio, confligge con l’esigenza di un’industria farmaceutica di vendere farmaci e cure di vario genere. L’interesse di società private che utilizzano od operano intorno alle carceri, contrasta con l’interesse collettivo di una giustizia imparziale e con la prevenzione (anziché la repressione ex-post) del crimine. L’interesse ad una pace duratura confligge con l’interesse dell’industria bellica a vendere armi. L’interesse collettivo ad un’ottima cultura generale confligge con il vantaggio competitivo dei singoli tra classi sociali differenti e con l’esistenza di asimmetrie informative. Si potrebbe andare avanti all’infinito a descrivere interessi generali rilevanti che contrastano con interessi privati di pari importo. Tali conflitti e le loro deleterie conseguenze sussistono in un’economia monetaria, ma sono degli intollerabili “non-senso” in economie non-monetarie.

Un’economia non-monetaria potrebbe facilmente basare la strategia di salute pubblica sulla prevenzione invece che sulla cura delle patologie, un approccio difficile da realizzare in un economia che venera l’aumento infinito del PIL. Non solo, grandissima parte (se non tutta) la corruzione e la criminalità (organizzata e non) deriva dalla possibilità e dalla necessità di convertire denaro in utilità. Se si spezza tale legame, allora si elimina anche la prima causa del crimine “professionale” e dei sistemi di corruzione sistemica degli apparati pubblici e privati. La prevenzione sociale (intesa in senso lato), in un’economia delle risorse, non è un costo, una scelta ideologica o un sogno, ma un semplice e banale investimento per minimizzare i costi e massimizzare l’utilità sia dei singoli sia della collettività.

Venendo meno le sperequazioni sociali inoltre vengono meno tutte criticità associate a tali sperequazioni reddituali e patrimoniali. Ciò vuol dire che le economie coloniali, a livello sociale partirebbero immediatamente avvantaggiate rispetto ad economie monetarie di entità analoga. Le colonie avrebbero non solo meno sprechi, ma anche meno esternalità negative non solo in ambito ambientale ma anche relazionale e sociale.


Concludo dicendo con piena convinzione che l’utopia è impossibile, ma se pensiamo che anche il “meglio” sia impossibile e persino un modesto “più efficiente” possa essere impossibile, allora non siamo poi così moderni come vorremmo far credere a noi stessi e agli altri.


Alessandro

martedì 25 febbraio 2014

Sbirciare il futuro





di Jacopo Simonetta


Molte volte, oramai, l’economia capitalista è stata data per spacciata, ed ogni volta i fatti hanno dimostrato il contrario; potrebbe questa volta essere diversa? Di fatto, i “G8”, i “G20”, i “G tutti”, gli eurogruppi, i summit ed i vertici di ogni tipo e qualità  si succedono da anni con un ritmo quasi frenetico; i “piani di salvataggio” si accavallano ai “decreti sviluppo” ed ai “Piani di aiuto”, riuscendo tuttalpiù a rimandare un “peggio” che resta tanto vago, quanto inquietante.   Intanto “la ripresa della crescita” continua a venir data per certa, ma il suo arrivo continua ad essere annunciato per l’anno venturo, da 6 anni oramai.   Oppure è legata a virtuosismi contabili.

A questo punto, che ci sia una “crisi di fiducia” pare il minimo, mentre rivolte e tafferugli dilagano in molte parti del pianeta. Preso atto di ciò, la domanda è: Come mai, di fatto, tutti i governi e le istituzioni finanziarie del pianeta sembrano impotenti a fermare quello che Tremonti (oramai 5 anni fa) definì “una specie di videogame dove ad ogni passo sbuca fuori un nuovo mostro più brutto del precedente”?   Eppure tutti i massimi esperti del mondo sembrano d’accordo. Quasi unanimi, ci dicono che occorre “ridurre il debito e rilanciare la crescita economica”.   Il primo punto per evitare, nell’immediato, che l’intera economia globale vada in briciole come un castello di carte.   Il secondo perché, sui tempi medi e lunghi, la crescita è l’unica medicina in grado di riportare il debito sotto controllo e, contemporaneamente, riportare le vacche grasse, almeno nei paesi più importanti.   Me se sono tutti d’accordo, perché non funziona?

Una risposta argomentata occuperebbe un grosso volume, ma un’idea di larga massima potremmo forse farcela semplicemente spostando l’attenzione dall’oggi a quello che è avvenuto nel corso degli scorsi 70 anni circa.   Proviamo a riportare su di un grafico tre variabili semplicissime e ben conosciute: il PIL USA, l’indice Dow Jons ed il debito federale USA. L’andamento negli altri paesi occidentali è stato molto simile, mentre quelli degli altri paesi sono largamente dipendenti da quelli occidentali, cosicché possiamo, in prima e grossolana approssimazione, considerare che i dati americani siano indicatori significativi per l’economia globale e globalizzata.   Almeno fino ad oggi.



Già a colpo d’occhio, possiamo distinguere 4 periodi:

1- Dal 1950 circa al 1973 – Il PIL (verde) e la borsa (tratteggiato) salgono con relativa costanza, molto più rapidamente del debito (rosso), che sale pochissimo. L’economia reale cresce più rapidamente della borsa.

2 - Dal 1973 ai primi anni ’80 – PIL e borse hanno fluttuazioni non molto ampie, ma per un periodo prolungato, mentre la crescita del debito accelera sensibilmente.

3- Dai primi ’80 al 2000 – L’economia riparte, ma la borsa, molto, molto più rapidamente dell’economia reale, mentre il debito comincia a lievitare in modo allarmante.

4 -Dal 2000 ad oggi – Il PIL continua a crescere, ma rallenta sensibilmente, mentre le borse cominciano a fluttuare travolte da un’incalzare di crisi di panico e di euforia, mentre il debito, dopo un attimo di stasi, va completamente fuori controllo.

Questa, almeno, è la versione ufficiale dei fatti, già notevolmente allarmante per il nostro futuro. Si da però il caso che il governo USA (al pari di tutti gli altri) abbia progressivamente modificato i metodi di calcolo dell’inflazione. Se si rifanno i calcoli fino ad oggi, utilizzando i parametri precedenti il 1980, si ottiene una curva molto diversa, e molto più vicina all'esperienza personale di noi comuni cittadini (fonte John Williams,”Shadow Government Statistics”).


Se i calcoli sono corretti: Dal dopoguerra ai primi ’70, dal punto di vista economico, tutto è andato sostanzialmente bene (per noi).   Poi c’è stato un decennio circa di problemi finché, nei primi anni ’80, una serie di provvedimenti (deregulation della finanza, svuotamento delle norme ambientali, globalizzazione del commercio e, soprattutto, esplosione del debito a tutti i livelli pubblici e privati) hanno effettivamente rilanciato la crescita di PIL e, soprattutto, delle borse, in parallelo col debito (NB. Il grafico riporta solo il debito federale. Parallelamente ad esso crescevano i debiti di enti locali, aziende, banche e famiglie). Questa rincorsa è andata avanti per circa 10 anni per poi stemperarsi in un altro decennio circa di stagnazione economica, associata però ad un’ulteriore crescita del debito (molto rallentato fra il ’95 ed il 2000) e, fenomeno importantissimo, alla crescita senza precedenti della speculazione borsistica che ha drenato la maggior parte degli investimenti. Con lo scoppio della bolla della “new economy” (a cavallo del 2.000) il giocattolo si è definitivamente rotto. Nel vano tentativo di evitare una recessione globale, i governi hanno risposto aumentando le dosi di “deregulation” e di debito, con risultati però molto limitati o addirittura controproducenti sull’economia reale, mentre la finanza entrava nel più completo delirio, stirata fra la propria tendenza intrinseca alla crescita esponenziale e lo scontro con la dura realtà di un’economia reale in recessione.

 Una prima domanda legittima sarebbe quindi questa: Se 40 anni di “doping” della crescita a botte di debito non hanno potuto evitare la recessione, possiamo pensare di ridurre questo debito senza accelerare la recessione già in atto?  Evidentemente no, e la Grecia lo dimostra.  E difatti, la tragedia della Grecia sta portando molti economisti e governi a spingere anziché sul tasto del “risanamento”,  su quello della “crescita” che poi (fidatevi!) risolverà tutti i problemi. Vedi ultimo summit mondiale dei grandi dottori dell'economia mondiale.   Ipotesi seducente, ma è realistica? I   grafici sopra riportati sono già decisamente sconfortanti, ma il quadro si fa ancor più fosco (e realistico) se confrontiamo i dati già visti con altri, di natura non più solo economica e finanziaria, tornando ancora una volta al 1972, quando fu pubblicato il leggendario “Limits to growth”.   Lasciando ai lettori la cura di studiarsi Word3, possiamo qui dire che, purtroppo, 40 anni di verifiche su dati reali hanno confermato che l’affidabilità di questo modello è estremamente elevata (G. Turner A comparison of the limits to growth with thirty years of reality 2008). By G. Turner in Mark Strauss, Smithsonian magazine, April 2012)

Dunque proviamo a confrontare i soliti dati (PIL, DowJons e debito federale nella versione SDS) con le curve tracciate dallo scenario “business as usual” di Word3. Ed ecco che, certamente non per caso, le turbolenze degli anni ’70 sono avvenute mentre la curva delle risorse incrociava quella della popolazione (significa che è stata superata la capacità di carico del Pianeta), mentre le ben più importanti turbolenze degli ultimi 10 anni si sono verificate in concomitanza con il raggiungimento del picco storico delle curve di produzione agricola ed industriale. Un picco cui fatalmente deve seguire un declino, già iniziato in alcuni paesi ed incipiente in altri, più o meno rapido e profondo a seconda di tante cose. Ancora più significativo, certamente non per caso, la curva del PIL (corretto) segue in modo impressionante la curva delle risorse (la scala delle curve è diversa, ma quello che conta qui è la forma).


 Ecco quindi la risposta: Ci saranno magari dei rimbalzi, più finanziari che economici, ma quello che stiamo vivendo sono le prime avvisaglie di una recessione che non potrà che peggiorare per tutti i prossimi 100 anni. Anzi, per il modo occidentale, la recessione è iniziata nel 2.000 (circa) e non ha poi fatto che peggiorare. Altri paesi, partiti dopo, hanno avuto tassi di crescita positiva fino ai giorni nostri, ma oramai si stanno adeguando all’andamento generale. Conclusioni analoghe si raggiungono studiando la situazione da altri punti di vista, anche molto diversi (andamento demografico, disponibilità di risorse insostituibili, degrado dei suoli, evoluzione socio-economica e politica, cultura dominante, ecc.). Purtroppo, quando dati di natura diversa, elaborati con metodi indipendenti, giungono a conclusioni simili, c’è poca speranza di sbagliare. A questo punto la risposta che di solito ricevo è di questo tipo: “Ma se fosse così vorrebbe dire che è finito tutto; che non si può far più nulla!”

Una reazione davvero strana perché, semmai, ciò che finisce è l’economia di mercato: una parentesi molto breve nella storia dell’umanità; una catastrofe devastante e puntiforme nella storia della biosfera.   Ci sono state grandi civiltà prima, perché non dovrebbero essercene altre dopo? Certamente prive delle tecnologie che ci sono care, ma nondimeno grandi civiltà; perché no?  E per chi è disposto ad archiviare l’ipotesi di mantenere in futuro un tenore di vita lontanamente simile a quello del recente passato, il daffare non manca; c’è molto più lavoro da fare su di una nave che affonda, rispetto ad una che procede spedita sulla sua rotta. La difficoltà è piuttosto che ci si addentra in un terreno storico totalmente inesplorato.   Nel giro di 10-20 anni al massimo anche le tracce che possono darci analisi come questa perderanno di significato.   Lo avevano detto chiaro Meadows e soci:  il loro modello è affidabile solo finché il sistema permane globalizzato: dal momento in cui comincerà a disgregarsi in sotto-sistemi, il destino di ognuno di questi potrà evolvere anche in modo molto diverso.




lunedì 24 febbraio 2014

Cassandra cambia nome: "Effetto Risorse"



Cari amici,

avrete notato il cambiamento al nome del blog, come pure all'immagine di background. Dopo averci ragionato sopra parecchio ed essermi consigliato con colleghi, collaboratori e amici, ci è parso il caso di passare da "Effetto Cassandra" a "Effetto Risorse."

Io ero il primo ad essere affezionato al vecchio nome e quindi mi è costato un certo sforzo abbandonarlo. Ma è abbastanza chiaro che era un nome che non rendeva bene nel dibattito. La prima reazione al nome "Cassandra" di molte persone non addentro alla tematica era di scrollare le spalle (o toccarsi in certe parti del corpo che non starò a nominare) e a cliccare altrove immediatamente.

Il nuovo nome dovrebbe essere più efficace del vecchio e in questo momento è vitale essere efficaci. Siamo a un punto di svolta: le previsioni dei "Limiti dello Sviluppo" si stanno avverando a macchia di leopardo nel mondo, con i paesi più deboli che uno dopo l'altro soccombono agli alti costi delle materie prime. Fra questi, ci siamo noi con il sistema economico italiano sta mostrando segnali preoccupanti di collasso.

I modelli dinamici del sistema economico ci dicono che il declino che osserviamo è il risultato del peso crescente sull'economia dell'aumento dei costi delle risorse minerali generato dal loro graduale esaurimento. A questo si aggiungono i costi crescenti dell'inquinamento, anche questo esacerbato dall'esaurimento delle risorse. Questo peso sull'economia ha poi generato una cascata di effetti che si sono auto-amplificati: Euro, spread, credito, debito pubblico, eccetera. L'opinione pubblica e i politici percepiscono principalmente questi effetti secondari, ma non li si possono risolvere se non andiamo alla radice: ovvero a combattere il problema dell'esaurimento sviluppando un'economia più efficiente che "chiuda il ciclo" delle risorse, riutilizzando quello che consuma.

Costruire un economia a ciclo chiuso richiede investimenti e questo vuol dire, necessariamente, fare sacrifici oggi per un futuro a lungo termine. Purtroppo, invece, ci siamo infilati in una visione della crisi che crede che la si possa risolvere con misure puramente cosmetiche a breve termine, ovvero tagli a tutto quello che si può tagliare; dagli stipendi dei politici ai servizi sociali e sanitari. Ma questo non risolve il problema, anzi lo aggrava.

Tuttavia, esiste ancora la possibilità di salvare qualcosa se ci impegniamo a creare un movimento di opinione che faccia presente la necessità di investire risorse sostanziali su un nuovo sistema produttivo che sia basato su risorse rinnovabili. Può darsi che questa opinione sia vista ancora per molto tempo come quella di un gruppo di Cassandre ma ricordiamoci che Cassandra, ai suoi tempi, aveva sempre avuto ragione!