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sabato 1 ottobre 2022

La Fine dell'Era Industriale? Come tornare ad essere contadini poveri




Dal "Fatto Quotidiano" del 29 Settembre 2022

di Ugo Bardi

I convulsi eventi sulla scena geopolitica mondiale continuano a prenderci di sorpresa. Cosa c’è dietro la distruzione del gasdotto Nord Stream? Non possiamo dire chi sia stato, ma una cosa è certa: il conflitto che stiamo vedendo è una guerra per le risorse molto di più di quanto non sia una guerra guerreggiata. Per capire cosa sta succedendo, dobbiamo tornare indietro nel tempo a trovare le radici della situazione attuale. 

Nel libro “Mare e Sardegna” (1921) l’autore, D.H. Lawrence, ci racconta come un soggetto favorito nelle conversazioni fra gli italiani del tempo erano gli insulti verso l’Inghilterra. Era perché il carbone inglese era diventato caro, cosa gli italiani attribuivano alla malvagità degli Inglesi. Il termine “Perfida Albione” era stato inventato molto tempo prima, ma cominciava a diventare di moda a quell’epoca. 

La storia del carbone inglese in Italia ci illustra i fattori ancora oggi in gioco nel funzionamento dell’economia italiana. L’industria italiana ha bisogno di energia, ma in Italia non ci sono risorse energetiche fossili sufficienti. Così, la rivoluzione industriale era arrivata in Italia nell’800 portata dal carbone inglese, importato via mare. Ma, con la fine della prima guerra mondiale, il carbone inglese era diventato improvvisamente molto più caro di prima. Non era perché gli inglesi fossero perfidi (forse un tantino si, ma non peggio di tanti altri), era per via dell’esaurimento delle risorse. Come aveva già previsto alcuni decenni prima l’economista inglese William Jevons, i costi di estrazione del carbone erano sempre più alti. Così, la produzione di carbone inglese aveva raggiunto il suo picco nel 1914 e aveva cominciato un declino irreversibile. Negli anni 1930, la carenza di carbone aveva costretto l’Italia a un abbraccio mortale con la Germania – che ancora poteva produrlo a prezzi bassi. I risultati li sappiamo tutti. 

Uscita con le ossa rotte dalla seconda guerra mondiale, l’industria italiana riuscì a risorgere grazie al petrolio statunitense fornito abbondanza con il piano Marshall. Anche per il petrolio, tuttavia, l’esaurimento doveva farsi sentire prima o poi. Nel 1970, gli Stati Uniti arrivarono al loro picco di produzione. Ne seguì la prima grande “crisi del petrolio,” ma il mercato globale riuscì a compensare il declino con altre sorgenti. Nel frattempo, si diffondeva un nuovo combustibile fossile: il gas naturale. Gradualmente, l’Europa si orientava verso importazioni dalla Russia mediante gasdotti. Con il gas a costi relativamente bassi, il sistema industriale italiano poteva sopravvivere.

Negli ultimi 10 anni, però, le cose sono cambiate radicalmente. Con la tecnologia del “fracking”, gli Stati Uniti sono riusciti a invertire il declino della loro produzione sia di gas che di petrolio. Di conseguenza, si sono riaffacciati sul mercato mondiale come esportatori. Questo spiega molte cose: il mercato del petrolio e del gas è strategico nel grande gioco del dominio mondiale e in questo gioco non ci sono regole. Buttar fuori la Russia dal mercato dell’Europa occidentale rende possibile all’industria americana di riprendersi un mercato che avevano perso da tempo. E’ quello che sta succedendo. Il sabotaggio del gasdotto Nord Stream è un segnale che il gas Russo non arriverà più in Europa. 

E adesso? In questo gioco strategico globale, tutto cambia sempre. E’ vero che le importazioni dagli Stati Uniti sono oggi in grado di sostituire il gas russo in Europa (a parte richiedere un aumento sostanziale della produzione USA, forse non impossibile). Ma è anche vero che importare gas naturale dagli USA è possibile soltanto in forma di gas naturale liquido e questo comporta grossi costi, come pure un pesante contributo al riscaldamento globale dovuto alle inevitabili perdite nel processo. A questo si aggiunge un’incognita fondamentale: fino a quando riusciranno gli Stati Uniti a mantenere la loro produzione ai livelli attuali? 

Il fracking è stato visto come una tecnologia miracolosa, ma non è così. La produzione sia di gas che di petrolio negli USA è piatta da qualche anno mentre le proiezioni non parlano di una ripresa della crescita rapida nel prossimo futuro. Come sempre, le previsioni sono difficili, ma di una cosa possiamo essere sicuri: nessuna risorsa minerale è infinita e prima o poi ci troveremo di fronte al picco del gas da fracking. E tutto ricomincia da capo con la ricerca affannosa di energia per tenere in piedi la società industriale. 

Per quanto riguarda l’Italia, ci troviamo in una posizione di estrema debolezza. Ci mancano le infrastrutture (i rigassificatori) necessarie per importare gas liquefatto. Li possiamo costruire, ma ci vorrà tempo e, nel frattempo, l’industria italiana potrebbe subire dei danni irreparabili. Non è detto poi che quando avremo i rigassificatori ci sarà gas disponibile da importare. Non solo, ma l’industria italiana potrebbe ritrovarsi a non essere competitiva sul mercato mondiale se deve sobbarcarsi gli alti costi del gas naturale liquido. In entrambi i casi, potremmo essere di fronte alla fine del ciclo industriale dell’economia italiana, circa due secoli dopo il suo inizio. Il problema è che, prima della rivoluzione industriale, in Italia c’erano meno di 20 milioni di abitanti e le carestie non erano rare. Tornare a quelle condizioni non sarebbe indolore (per dirla molto diplomaticamente). 

Sembra chiaro che per noi non ci sono altre vie di uscita che una sterzata decisa verso le rinnovabili, già oggi molto meno costose di qualsiasi combustibile fossile e in grado di sostituirli completamente. Questo i politici non l’hanno ancora capito, ma ci metterebbe al riparo da nuove crisi di disponibilità di energia e dai ricatti dei produttori. Ma non è una cosa che si possa fare dall’oggi al domani. Solo una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina ci darebbe il tempo per costruire una nuova infrastruttura basata sulle rinnovabili. Ce la faremo? Nulla vieta di provarci. 



lunedì 2 giugno 2014

Ma siamo sicuri che lo sviluppo industriale porti benessere?


 



Di Jacopo Simonetta

Che lo sviluppo industriale porti benessere è uno degli assunti basilari del nostro modo di pensare e di operare.   Come potrebbe essere altrimenti?   Non è forse vero che lo sviluppo industriale ha tirato fuori dalla miseria le masse europee?   Ed allora perché non dovrebbe fare altrettanto negli altri paesi?
Una risposta istintiva potrebbe essere: perché lo abbiamo già fatto noi, ma sarebbe una risposta molto parziale ed in parte sbagliata.   Prendiamo quindi le cose dall’inizio.

Un fatto che nessun economista nega, ma che la grande maggioranza di loro ignora bellamente, è che i processi industriali sono processi fisici e qualunque processo fisico di dimensione compresa fra l’atomo e la galassia è soggetto alla leggi della termodinamica.   Molto sopra e molto sotto queste misure forse no, ma qui non ci interessa.

In sostanza, per realizzare qualunque oggetto si parte da risorse (viventi o meno) e vi si applica dell’energia di alta qualità (generalmente carburanti) per estrarla e concentrarla, poi vi si applica nuovamente dell’energia (spesso elettricità) per trasformare i materiali dandogli una forma precisa ed ordinata.   Poi si applica nuovamente energia per assemblare i pezzi in prodotti finali che dopo un periodo più o meno lungo di uso diventano rifiuti.

Nelle filiere reali i passaggi possono essere numerosissimi, ma in ogni caso, al ogni passaggio si applica un’energia (E) per dividere una parte del materiale che diventa qualcosa di più concentrato e formato (X).   Contemporaneamente, un’altra parte di materiale (spesso maggiore)  diventa invece qualcosa di più disperso e disordinato (Y).   Parte dell’energia applicata viene incorporata nel prodotto X e nel rifiuto Y; parte viene invece dispersa sotto forma di calore, rumore, ecc. (Z).    Quindi abbiamo due cose in entrata (energia e materie prime) e tre cose in uscita: un prodotto X con un’entropia inferiore al materiale di partenza; un rifiuto Y ed un’energia Z che, viceversa, hanno entrambi un’entropia superiore sia al materiale di partenza che all’energia applicata.  





LA COSA FONDAMENTALE DA RICORDARE SEMPRE E’ QUESTA:

L’entropia di Y+Z è sempre maggiore dell’entropia di E+X

Dunque qualunque processo produttivo in realtà non produce proprio niente.   Al contrario, dissipa energia e genera rifiuti per trasformare una piccola parte della materia in oggetti d’uso da cui spesso dipende la nostra vita.  

Una parte dei rifiuti possono essere riciclati, ma in ogni caso il loro riutilizzo è parziale e richiede la dissipazione di ulteriore energia, sia pure in misura minore all’estrazione di risorse primarie.    Il riuso ed il riciclaggio, dunque rallentano l’accumulo di alta entropia, ma non possono fermarlo; men che meno invertirlo.
In sintesi, la produzione industriale raccoglie bassa entropia dove è disponibile al minor prezzo e la concentra in determinate parti del sistema (impianti industriali, depositi, prodotti, infrastrutture, prodotti, ecc), mentre scarica l’alta entropia che produce (rifiuti e calore) su tutto il resto e questo è qualcosa di altrettanto inevitabile della legge di gravità.   

Una faccenda apparentemente banale, ma da cui dipendono i destini dei popoli e dell’intero pianeta.

In ultima analisi, l’industria è infatti un gioco a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde; e perde più di quanto gli altri vincano, cosicché il pianeta nel suo complesso perde sempre e comunque.
Ma se non possiamo evitare di danneggiare qualcuno, entro certi limiti possiamo almeno scegliere chi.   Ad esempio, la ripartizione dei vantaggi e degli svantaggi può essere fatta nello spazio (regioni che si arricchiscono a scapito di altre), nel tessuto sociale (classi che migliorano il loro status ed altre che lo peggiorano) oppure nel tempo (generazioni vincenti a scapito dei loro discendenti).   Oppure si possono ideare strategie miste fra queste;  l’unica cosa che non possiamo fare è evitare che qualcuno paghi per chi guadagna.

Visto in quest’ottica , il suicidio commesso da EU ed USA con la delocalizzazione delle manifatture e l’esportazione delle tecnologie è particolarmente strabiliante, ma c’è un aspetto ancora più importante.
Ciò che distingue la Terra da tutti gli altri pianeti conosciuti è che ha un livello di entropia inferiore e questo è dovuto esclusivamente alla presenza della Biosfera.   E’ infatti la presenza di strutture viventi estremamente organizzate e complesse che assicura che la Terra mantenga caratteristiche compatibili con la vita.   La Biosfera è il’unica cosa esistente che è in grado di “pompare” l’entropia al contrario (naturalmente a costo di scaricarla nello spazio circostante, ma non risulta che la galassia ne risenta).

In estrema sintesi, le piante concentrano l’energia e gli animali la disperdono, ma per miliardi di anni c’è stato un lieve saldo attivo che si è tradotto nell’accumulo di entropia in forma di biomassa e, soprattutto, di carbone, petrolio e gas.   Questi giacimenti che chiamiamo “combustibili” erano in effetti quella cosa che la Biosfera aveva sepolto realizzando le  condizioni ambientali in cui la nostra specie e quasi tutte quelle oggi viventi si sono evolute.   Un autentico “vaso di Pandora” che abbiamo scoperchiato e vuotato quasi per metà.

Già lo sterminio della mega-fauna (a partire dal tardo paleolitico) e la conversione degli ecosistemi naturali in ecosistemi agricoli (a partire dal neolitico) e hanno cambiato considerevolmente il mondo, ma senza giungere a modificare sensibilmente l’equilibrio entropico planetario.   Neppure lo sviluppo industriale ha avuto impatti globali avvertibili finché è rimasto un fenomeno localizzato all’Europa occidentale, ma via via che si è diffuso e potenziato ha finito con l’alterare radicalmente gli equilibri termodinamici dell’intero pianeta.

Si può molto discutere se e quanto l’industria danneggi questo o quel popolo, classe o generazione umana, ma nessuno può negare che in fondo alla catena c’è sempre e comunque un perdente: la Biosfera (di cui siamo comunque parte integrante).

Il risultato è che da circa 2 secoli l’entropia planetaria ha cominciato a crescere e lo ha fatto in modo sempre più rapido.   L’effetto finale del “global warming” è proprio questo: ostacolando lo scarico di alta entropia nello spazio, la fa aumentare sulla Terra ed è questa una notizia che dovrebbe gettare nel panico ogni singolo abitante di questo pianeta perché significa che la nostra unica casa sta bruciando e che continuerà a farlo ancora molto a lungo.   Possiamo sperare che il processo sia reversibile nel giro di qualche milione di anni, ma non ci possiamo assolutamente contare.   

E dunque?   Ridurre la produzione industriale parrebbe l’unica cosa lungimirante da fare, ma non possiamo nasconderci che ciò avrebbe effetti devastanti sulle economie, generando numeri incalcolabili di disoccupati e di affamati, con conseguenze sociali facili da prevedere.   Per non parlare del fatto che chi si deindustrializza si pone  alla mercé dei paesi industriali circostanti; una lezione che stiamo forse imparando.

Mantenere la produzione industriale riducendo i flussi di materia ed energia parrebbe una strategia molto promettente, ma in pratica non ha mai funzionato: il miglioramento tecnologico fa aumentare i consumi e, generalmente, anche la popolazione.

Dunque, a scala nazionale e regionale avremmo interesse a sviluppare una nuova fase industriale (il più possibile basata sul riciclaggio e sulle energie rinnovabili), mentre a livello globale è di vitale importanza ridurre drasticamente e molto rapidamente la produzione industriale.   Un bel dilemma!

Ci troviamo ad un bivio: da una parte c’è l’estinzione, dall'altra la disperazione; speriamo di fare la scelta giusta” Woody Allen

Non per caso la divinità di "ultima istanza" rimasta nel vaso di Pandora è proprio la Speranza.