lunedì 30 giugno 2014

Acqua fotovoltaica

DaResource crisis”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi


Acqua prodotta condensando l'umidità dell'aria usando energia solare (nella foto: Francesco El Asmar) Foto di Ugo Bardi

Quando ho cominciato a lavorare alla produzione di acqua dall'umidità atmosferica, io stesso e il mio collega ed amico Toufic El Asmar pensavamo fosse un'idea folle. L'energia è costosa e la condensazione dell'acqua ne richiede molta. Tuttavia, continuando a lavorare al concetto, abbiamo capito che aveva senso. Certo, ci vuole energia ma, col progresso delle tecnologia, l'energia rinnovabile sta diventando sempre più a buon mercato. E in certi momenti, l'energia rinnovabile costa realmente zero. In quei momenti, si dovrebbe immagazzinare, ma l'immagazzinamento è la parte costosa dell'energia rinnovabile. Quindi, perché non trasformare l'energia solare in qualcosa che possiamo immagazzinare con un costo basso o senza costo, per esempio in acqua potabile pulita? Dopo tutto, l'acqua sta rapidamente diventando un bene costoso in molte regioni del mondo.

Così è nata l'idea di una “macchina solare per l'acqua” che usa energia elettrica da pannelli fotovoltaici per alimentare un condensatore d'acqua che raccoglie l'umidità dell'aria. L'acqua viene quindi filtrata e resa potabile aggiungendo una piccola quantità di sali naturali. La macchina è più complessa di così, raccoglie anche acqua piovana e può pulire e purificare acqua da quasi ogni sorgente, producendo fino a 200 litri di acqua pura al giorno. I suoi pannelli solari la rendono del tutto autosufficiente: può essere messa ovunque, non deve essere collegata alla rete (anche se potrebbe). E' quindi buona per luoghi remoti, per situazioni di emergenza e per diverse necessità. Ecco il sistema “Acqua dal Sole” il giorno della sua presentazione ufficiale a Capannori. Le persone coinvolte nel progetto sono allineate di fronte alla macchina (compreso il sottoscritto).


Ora che vi ho raccontato l'essenziale, lasciate che vi racconti qualche dettaglio in più su questa idea. E' cominciato tutto qualche anno fa, quando io e Toufic El Asmar abbiamo preparato un progetto sull'uso dei collettori solari per produrre aria condizionata nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. L'idea è stata che quei paesi godono di un grande irraggiamento solare che potrebbe essere raccolta usando specchi parabolici per scaldare un sistema di aria condizionata ad assorbimento. Il progetto è stato approvato dalla Commissione Europea con nome di “REACT” ed ha portato alla fabbricazione di due prototipi, uno in Marocco e l'altro in Giordania.

Col passare del tempo, tuttavia, la rapida discesa del prezzo dei pannelli fotovoltaici ha reso obsoleti i collettori solari parabolici. Ma mentre lavoravamo al progetto REACT, abbiamo notato che la refrigerazione poteva produrre moltissima acqua per condensazione dall'aria. Questo ci ha portato a studiare il tema più in dettaglio e la Commissione Europea ha sponsorizzato un progetto denominato “Aqua Solis”. La nostra idea è stata di studiare un approccio completamente diverso rispetto agli impianti di desalinizzazione su larga scala che vengono comunemente usati oggigiorno per produrre acqua per i paese che non ne hanno. L'idea era quella di sviluppare sistemi “su scala di villaggio”, versioni migliorate della vecchia idea del “distillatore solare”. Economico, semplice e senza necessità di costosi sistemi di tubazioni necessari per gli impianti di desalinizzazione convenzionali. L'idea di fondo era quella di creare sistemi versatili che potessero usare energia fotovoltaica per produrre acqua , ma anche per qualsiasi uso in ogni particolare momento.

Col tempo, si studio si è evoluto in un brevetto depositato da me (Ugo Bardi) e da Toufic El Asmar e poi in un dispositivo funzionante: il sistema “Acqua dal Sole”, costruito dalle aziende italiane  al momento Sinapsi e Sinerlab, su un progetto di Archistudio. Il sistema “Acqua dal Sole” al momento si trova in un'area vicina all'aeroporto di Capannori (vicino a Lucca) dove una compagnia aeronautica ad alta tecnologia, la Zefiro, ha gentilmente offerto uno spazio di prova. L'acqua prodotta è gratuita per chiunque passi di lì, anche se per ragioni burocratiche leggerete sul rubinetto la scritta “non potabile”. Ma è del tutto potabile e molto buona, posso garantirvelo!

Stiamo cercando applicazioni pratiche e mercati per questo apparecchio. Naturalmente, ciò dipende dal costo ma, visto che i prezzi del fotovoltaico continuano a scendere, è probabile che l'acqua dall'aria possa essere una rivoluzione nel modo in cui si produce l'acqua nel mondo, specialmente in aree in cui è fortemente richiesta. Ed anche nel modo in cui viene immagazzinata l'energia rinnovabile. Una volta che avete visto il “cammello fotovoltaico” capirete quanto stia crescendo rapidamente la gamma di applicazioni dei pannelli fotovoltaici. Quella fotovoltaica è una tecnologia emergente che ha la possibilità di rimodellare il mondo in modi che, al momento, non possiamo nemmeno immaginare.




Le persone che hanno lavorato al progetto “Acqua dal Sole”

Ugo Bardi (Università di Firenze)
Eugenio Baronti (Zefiro s.r.l.)
Lorenzo Cardarella (Sinapsi s.r.l.)
Toufic El Asmar (Food and Agriculture Organization, FAO)
Filippo Niccolai (Sinerlab s.r.l.)
Francesco Niccolai (Sinerlab s.r.l.)
Michele Tosti (Sinapsi s.r.l.)


domenica 29 giugno 2014

Il cambiamento climatico come arma di distruzione di massa

DaCommon Dreams”. Traduzione di MR

Il cambiamento climatico è un crimine contro l'umanità? Diciamo... sì. 

Di Tom Engelhardt



L'industria dei combustibili fossili sta conducendo una guerra contro l'ecosistema planetario e la sua gente. Non è solo inutile ed osceno, ma dovrebbe essere considerato un crimine. (Immagine: public domain)

Chi potrebbe dimenticare? Allora, nell'autunno del 2002, c'era un enorme rullo di tamburi di “informazione” dalle principali figure dell'amministrazione Bush sul programma segreto degli iracheni di sviluppare armi di distruzione di massa (ADM) e quindi mettere in pericolo gli Stati Uniti. E chi – a parte pochi babbei – avrebbe potuto dubitare che Saddam Hussein alla fine avrebbe avuto un'arma nucleare? La sola domanda, come ha suggerito il nostro vice presidente a “Meet the Press”, è stata: impiegherà un anno o ce ne vorranno cinque? E non era il solo ad avere quelle paure, visto che c'erano un sacco di prove di quello che stava accadendo. Per cominciare, c'erano quei “tubi di alluminio appositamente progettati” che l'autocrate iracheno aveva ordinato come componenti per le centrifughe per arricchire l'uranio all'interno del proprio fiorente programma di armi nucleari. I giornalisti Judith Miller e Michael Gordon hanno coperto la prima pagina del New York Times con quella storia l'8 settembre del 2002.

Poi c'erano quelle “nuvole a forma di fungo” di cui Condoleezza Rice, il nostro consigliere per la sicurezza, era così pubblicamente preoccupata – quelle destinate ad innalzarsi al di sopra delle città americane se non avessimo fatto qualcosa per fermare Saddam. Come si affliggeva in un'intervista con Wolf Blitzer quello stesso 8 settembre, “Non vogliamo che la pistola fumante sia una nuvola a forma di fungo” No, infatti, ed è risultato che neanche il congresso lo voleva! E nel caso non foste sufficientemente ansiosi riguardo alla incombente minaccia irachena, c'erano quei veicoli aerei senza pilota – i droni di Saddam! - che potevano essere armati con ADM chimiche o biologiche dal suo arsenale e fatti volare sulle città della costa orientale americana con risultati inimmaginabili. Il presidente George W. Bush è andato in televisione a parlare di questo e i voti del congresso sono stati cambiati in favore della guerra grazie a informative dei servizi segreti su queste armi da far rizzare i capelli in testa, portate a Capitol Hill.

Alla fine, viene fuori che Saddam non aveva alcun programma di armi, nessuna bomba nucleare imminente, nessuna centrifuga per quei tubi di alluminio, nessun nascondiglio con armi biologiche o chimiche e nessun aereo drone per portare le sue inesistenti armi di distruzione di massa (né alcuna nave capace di portare quegli aerei robotici inesistenti nelle vicinanza della costa statunitense). Ma se le avesse avute? Chi voleva prendere quella possibilità? Non il vice presidente Cheney, di sicuro. All'interno dell'amministrazione Bush, Cheney ha propugnato una cosa che il giornalista Ron Suskind ha in seguito soprannominato la “dottrina del 1%”. La sua essenza è stata questa: se c'era anche solo un 1% di possibilità di un attacco agli Stati Uniti, in special modo se coinvolgeva armi di distruzione di massa, doveva essere affrontato come se fosse certo al 95-100%.

E' questa la cosa curiosa: se si guarda indietro alle paure apocalittiche di distruzione dell'America durante i primi 14 anni di questo secolo, hanno in gran parte contemplato tre armi per far scoppiare le città che erano fantasie della fertile immaginazione imperiale di Washington. C'era quella “bomba” di Saddam, che ha fornito parte del pretesto per una molto desiderata invasione dell'Iraq. C'era la “bomba” dei mullah, il regime fondamentalista iraniano che abbiamo amato così tanto da quando ci ha ripagato, nel 1979, per il rovesciamento da parte della CIA di un governo eletto nel 1953 e l'instaurazione dello Shah, prendendo lo staff dell'ambasciata americana a Teheran in ostaggio. Se avete creduto alle notizie di Washington e Tel Aviv, gli iraniani, anche, erano pericolosamente vicini a produrre un'arma nucleare o almeno erano ripetutamente sul punto del punto di farlo. La produzione di quella “bomba iraniana” è stata, per anni, un punto focale della politca americana in Medio Oriente, il “margine” oltre il quale la guerra ha sempre aleggiato. Eppure non c'era e non c'è nessuna bomba iraniana, né prove che gli iraniani fossero o sono sul punto di produrne una.

Infine, naturalmente, c'è stata la bomba di Al-Qaeda, la “bomba sporca” che quell'organizzazione poteva in qualche modo assemblare, trasportare negli Stati Uniti ed innescare in una città americana o il “nucleare sciolto”, forse proveniente dall'arsenale pakistano, col quale potevano fare la stessa cosa. Questa è la terza bomba di fantasia che ha inchiodato l'attenzione americana in questi ultimi anni, anche se ci sono ancora meno prove della probabilità della sua esistenza imminente di quanto non ce ne fossero di quelle irachena ed iraniana. Per riassumere, la cosa strana riguardo agli scenari da “fine del mondo per come lo conosciamo” della Washington post 9/11 è questa: con una sola eccezione, questi riguardavano solo armi di distruzione di massa inesistenti. Una quarta arma – una che esisteva ma che ha giocato un ruolo più modesto nelle fantasie di Washington – è stata la bomba del tutto reale della Corea del Nord, che in questi anni i nordcoreani sono stati incapaci di portare verso le spiagge americane.

La “buona notizia” sul cambiamento climatico

In un mondo in cui le armi nucleari rimangono una moneta cruciale del regno quando si tratta di potere globale, nessuno di questi esempi può essere classificato come pricoloso allo 0%. Saddam aveva avuto una volta un programma nucleare, solo non nel 2002-2003, e anche armi chimiche, che ha usato contro le truppe iraniane nella sua guerra contro il loro paese nel 1980 (con l'aiuto di informazioni mirate da parte dell'esercito degli Stati Uniti) e contro la sua stessa popolazione curda. Gli iraniani potrebbero (o no) aver preparato il loro programma nucleare per una possibile capacità di armamenti e Al-Qaeda di sicuro non avrebbe rifiutato un “nucleare sciolto”, se ce ne fosse stato uno disponibile (anche se la capacità di quella organizzazione di usarlo sarebbe stata comunque discutibile). Nel frattempo, i giganteschi arsenali di ADM esistenti, quelli americani, russi, cinesi, israeliani, pakistani e indiani che avrebbero potuto realmente lasciarsi dietro un pianeta storpiato o devastato, sono rimasti ampiamente al di fuori dello schermo radar americano. Nel caso dell'arsenale indiano, l'amministrazione Bush ha in realtà dato una mano indiretta alla sua espansione. Così è stato tipico del 21° secolo quando il presidente Obama, nel tentativo di mettere le recenti azioni russe in Ucraina in prospettiva, ha detto: “la Russia è una potenza regionale che sta minacciando alcuni di suoi vicini più prossimi. Continuo ad essere molto più preoccupato quando si tratta della nostra sicurezza dalla prospettiva di un'arma nucleare che arrivi a Manhattan”. Ancora una volta, un presidente americano si è focalizzato su una bomba che farebbe salire una nuvola a forma di fungo sopra Manhattan. E quale bomba sarebbe questa, esattamente, signor presidente?

Naturalmente, c'era un'arma di distruzione di massa che potrebbe di fatto fare un danno impressionante a New York City, Washington D.C., Miami, ed altre città della costa orientale, o forse un giorno semplicemente sommergerle. Questa aveva un suo personale ed efficiente sistema di consegna – non erano necessari droni inesistenti o fanatici islamici. E a differenza delle bombe di iracheni, iraniani e di Al-Qaeda, era garantito che sarebbe stato consegnato sulle nostre coste, a meno che un'azione preventiva non fossa stata intrapresa in fretta. Era un sistema di armi i cui impianti di produzione erano in bella vista proprio qui negli Stati Uniti, così come in Europa, Cina e India, così come in Russia, Arabia Saudita, Iran, Venezuela ed altri stati energetici.

Quindi ecco una domanda che mi piacerebbe che chiunque di voi viva o venga in vacanza in Wyoming faccia all'ex vice presidente, nel caso vi ci doveste imbattere in uno stato in cui è noto che ci sia una popolazione ridotta: come si sentirebbe riguardo all'agire preventivamente se invece di un 1% di possibilità che qualche paese con armi di distruzione di massa possa usarle contro di noi, ci fosse almeno un 95% - e probabilmente non un 100% - di possibilità che venga innescato suo nostro suolo? Siamo conservatori, visto che la domanda è stata posta a un ben noto conservatore. Chiediamogli se sarebbe a favore di perseguire la dottrina del 95% nel modo in cui lo era per quella del 1%.

Dopo tutto, grazie ad un cupo rapporto nel 2013 da parte del IPCC, sappiamo che che ora c'è una probabilità del 95-100% che “l'influenza umana sia stata la causa dominante del riscaldamento osservato [del pianeta] dalla metà del 20° secolo”. Sappiamo anche che il riscaldamento del pianeta – grazie al sistema dei combustibili fossili di cui viviamo e i gas serra che deposita nell'atmosfera – sta già facendo un danno reale al nostro mondo e in particolar modo agli Stati Uniti, come un recente rapporto scientifico pubblicato dalla Casa Bianca ha reso chiaro. Sappiamo anche, con cupa e ragionevole certezza, in che tipo di danno quel 95-100% di possibilità è probabile che si traducano nei decenni, e anche nei secoli, a venire se le cose non cambiano radicalmente: un aumento di temperatura per la fine del secolo che potrebbe superare i +10°F, provocando estinzioni a cascata, siccità incredibilmente severe su più ampie parti del pianeta (come nell'attuale siccità di lungo termine nel ovest e nel sud-ovest americano), precipitazioni molto più gravi su altre aree, tempeste più intense che causerebbero un danno molto maggiore, ondate di calore devastanti su una scala che nessuno nella storia umana ha mai sperimentato, masse di rifugiati, aumento dei prezzi globali del cibo e fra le altre catastrofi nell'agenda umana, l'aumento dei livelli del mare che annegheranno le aree costiere del pianeta.

Per esempio, da due studi scientifici appena pubblicati proviene la notizia che la calotta glaciale dell'Antartide Occidentale, uno dei grandi accumuli di ghiaccio del pianeta, ora ha intrapreso un processo di fusione e collasso che potrebbe, fra qualche secolo, aumentare i livelli del mare mondiali in modo raccapricciante da 3 a 4 metri. Quella massa di ghiaccio, secondo gli autori principali di uno dei due studi, si trova già in “ritiro irreversibile”, che significa – a prescindere dalle azioni intraprese da ora in poi – una futura sentenza di morte per alcune delle grandi città del mondo (E questo senza nemmeno la fusione della calotta glaciale della Groenlandia, per non parlare del resto del ghiaccio in Antartide). Tutto ciò, naturalmente, accadrà principalmente perché noi esseri umani continuiamo a bruciare combustibili fossili ad un tasso senza precedenti a quindi annualmente depositiamo carbonio nell'atmosfera a livelli record. In altre parole, parliamo di armi di distruzione di massa di un nuovo tipo. Mentre alcuni dei loro effetti sono già in atto, la distruzione planetaria che le armi nucleari potrebbero causare quasi istantaneamente, o perlomeno (dati gli scenari di "inverno nucleare") in pochi mesi, col cambiamento climatico impiegheranno decenni, se non secoli, per portare il proprio impatto planetario completo.

Quando parliamo di ADM, di solito pensiamo ad armi – nucleari, biologiche o chimiche – che vengono portate in un momento nel tempo misurabile. Considerate il cambiamento climatico, quindi, come un ADM su un lasso temporale particolarmente lungo, già attivato e visibile per tutti noi. A differenza della spaventevole bomba iraniana o dell'arsenale pakistano, non servono la CIA o l'NSA per stanare tali “armamenti”. Dai pozzi petroliferi agli impianti di fracking, dalle trivellazioni in alto mare alle piattaforme nel Golfo del Messico, il macchinario che produce questo tipo di ADM ed assicura che sia continuamente consegnata ai suoi obbiettivi planetari è del tutto visibile. Potente come potrebbe essere, distruttiva come sarà, coloro che lo controllano hanno fede che, essendo da così lungo tempo in sviluppo, possa rimanere in vista senza far prendere il panico alle popolazioni o provocare la richiesta di una sua distruzione. Le aziende e gli stati energetici che producono tali ADM rimangono considerevolmente aperti riguardo a ciò che fanno. Parlando in generale, non esitano a rendere pubblico, o persino ad amplificare, i loro piani per la distruzione all'ingrosso del pianeta, anche se naturalmente non vengono mai descritte in questo modo. Ciononostante, se un autocrate iracheno o un mullah iraniano parlavano in modo analogo della produzione di armi nucleari e di come dovevano essere usate, sarebbero stati abbrustoliti. Prendete ExxonMobil, una delle multinazionali più redditizie della storia. All'inizio di aprile, ha pubblicato due rapporti focalizzati su come la compagnia, come ha scritto Bill McKibben, “ha pianificato di affrontare il fatto che lei ed altri giganti petroliferi hanno molte volte più carbonio nelle proprie riserve collettive di quante gli scienziati sostengono che possiamo bruciare in sicurezza”. E continuava:

La compagnia ha detto che le restrizioni governative che la costringerebbero a mantenere le proprie riserve [di combustibili fossili] nel sottosuolo sono 'altamente improbabili' e che non solo le estrarranno tutte e le bruceranno, ma continueranno a cercare più petrolio e gas – una ricerca che attualmente brucia circa 100 milioni di dollari dei soldi dei propri investitori ogni singolo giorno. 'Sulla base di questa analisi, confidiamo che nessuna delle nostre riserve di idrocarburi sono o diventeranno “arenate”'.

In altre parole, Exxon pensa di sfruttare qualsiasi riserva di combustibili fossili di cui è in possesso e completamente. I leader di governo coinvolti nel sostegno della produzione di tali armi di distruzione di massa e del loro uso spesso sono similmente aperti su questo, anche mentre si discutono i passi per mitigare i loro effetti distruttivi. Prendete la Casa Bianca, per esempio. Ecco una dichiarazione che il presidente Obama ha orgogliosamente fatto in Oklahoma nel marzo 2012 sulla sua politica energetica:

Ora, sotto la mia amministrazione, l'America sta producendo più petrolio che mai negli ultimi 8 anni. E' importante che lo sappiate. Negli ultimi 3 anni, ho diretto la mia amministrazione per aprire milioni di acri per l'esplorazione di gas e petrolio in 23 diversi stati. Stiamo aprendo più del 75% delle nostre risorse petrolifere in mare. Abbiamo quadruplicato il numero di impianti operativi a un numero record. Abbiamo aggiunto nuovi oleodotti e gasdotti sufficienti a fare il giro della Terra e anche di più.

Analogamente, il 5 maggio, poco prima che la Casa Bianca rivelasse quel torvo rapporto sul cambiamento climatico in America e con un Congresso incapace di far passare anche la più rudimentale legge climatica mirata a rendere il paese modestamente più energeticamente efficiente, il consigliere di Obama John Podesta è apparso nella sala dei comunicati della Casa Bianca per vantarsi della politica energetica “verde” dell'amministrazione. “Gli Stati Uniti”, ha detto, “ora sono i più grandi produttori di gas naturale del mondo e i più grandi produttori di gas e petrolio del mondo. Si prevede che gli Stati Uniti continueranno ad essere i più grandi produttori di gas naturale fino al 2030. Per sei mesi di fila, abbiamo prodotto più petrolio qui a casa di quello che abbiamo importato da oltremare. Quindi si tratta solo di una storia di belle notizie”.

Buone notizie infatti, e dalla Russia di Vladimir Putin, che si ha appena ampliato i suoi vasti possedimenti di petrolio e gas di un pezzo di Mar Nero della dimensione del Maine al largo della Crimea, alle “bombe di carbonio” cinesi, alle garanzie di produzione, dell'Arabia Saudita, simili “buone notizie” vengono analogamente promosse. In essenza, la creazione di sempre più gas serra – cioè del motore della nostra futura distruzione – rimane una “buona notizia” per le élite dominanti sul pianeta Terra.

Armi di distruzione planetaria

Sappiamo esattamente ciò che dick Cheney – pronto ad andare in guerra per una possibilità del 1% che qualche paese avrebbe potuto danneggiarci – risponderebbe, se gli si chiedesse del fatto di agire sulla dottrina del 95%. Chi può dubitare che la sua risposta sarebbe simile a quelle delle grandi compagnie energetiche, che hanno finanziato così tanto il negazionismo climatico e la falsa scienza negli anni? Dichiarerebbe che la scienza non è “certa” a sufficienza (anche se “incertezza” di fatto può essere interpretata in due modi), che prima di impegnare grandi somme per affrontare il fenomeno, dobbiamo sapere di gran lunga di più e che, in ogni caso, la scienza del cambiamento climatico è guidata da un programma politico. Per Cheney e Co., è sembrato ovvio che agire sul 1% di possibilità era un modo sensibile di andare in “difesa” dell'America e non è meno evangelico per loro di quanto non lo sia agire su almeno il 95% della possibilità. Per il partito Repubblicano nel suo complesso, il negazionismo del cambiamento climatico è al momento nient'altro che una cartina di tornasole di lealtà e quindi persino una dottrina del 101% non basterebbe quando si tratta di combustibili fossili e del pianeta.

Non è il caso, naturalmente, di dare la colpa di questo ai combustibili fossili o anche al biossido di carbonio che rilasciano quando vengono bruciati. Queste non son armi di distruzione di massa più dell'uranio-235 e del plutonio-239. In questo caso, l'armamento è il sistema di produzione che è stato messo in piedi per trovare, estrarre, vendere con incredibili profitti e bruciare quei combustibili fossili e creare così un pianeta-serra. Col cambiamento climatico non c'è nessun “ragazzino" o "Uomo grasso" equivalente, nessuna semplice arma su cui concentrarsi. In questo senso, il fracking è il sistema di armi, come lo sono le trivellazioni in alto mare, come lo sono quegli oleodotti, le stazioni di servizio, gli impianti alimentati a carbone, le milioni di automobili che riempiono le strade globali e i contabili delle più redditizie multinazionali della storia. Tutto questo – tutto ciò che porta infiniti combustibili fossili sul mercato, rende quei combustibili bruciabili per eccellenza ed aiutano a sopprimere lo sviluppo di alternative non fossili – è l'ADM. Gli AD delle grandi compagnie energetiche del pianeta sono i pericolosi mullah, i veri fondamentalisti, del pianeta Terra, visto che promuovono una fede nei combustibili fossili che è garantito che ci porti a una qualche versione della Fine dei Tempi.

Forse ci serve una nuova categoria di armi con un nuovo acronimo per focalizzarci sulla natura delle nostre attuali circostanze del 95-100%. Chiamatele armi di distruzione planetaria (ADP) o armi di danno planetario (ADP2). Solo due sistemi di armamenti sarebbero chiaramente adatti a tali categorie. Il primo sarebbe quello delle armi nucleari che, anche in una guerra localizzata fra Pakistan e India, potrebbe creare una qualche versione del “inverno nucleare” nel quale il pianeta sarebbe tagliato fuori anche solo dal tanto fumo e fuliggine che diventerebbe rapidamente freddo, vivrebbe una perdita enorme di colture, di stagioni agricole e di vita. Nel caso di un grande scambio di tali armi, parleremmo della “sesta estinzione” della storia del pianeta. Anche se su una scala temporale diversa e più difficile da afferrare, bruciare combustibili fossili potrebbe finire in modo analogo – con una serie di disastri “irreversibili” che potrebbero essenzialmente bruciare noi e gran parte della vita sulla Terra. Questo sistema di distruzione su scala planetaria, facilitato da gran parte delle élite governanti e affaristiche del pianeta, sta diventando (per tirare in ballo un'altra categoria non usata di frequente in collegamento al cambiamento climatico) il “crimine contro l'umanità” ultimo e, di fatto, contro gran parte delle cose viventi. Sta diventando un “terracidio.”


© 2014 TomDispatch.com

Il mondo post-picco: Le strade di Sana'a intasate da macchine alla ricerca di benzina

Lo Yemen ha passato qualche anno fa il proprio picco di produzione petrolifera e, di recente, la produzione nazionale è scesa al di sotto delle importazioni. La situazione dello Yemen ci offre un piccolo flash di quello che potrebbe essere il nostro futuro post-picco, soprattutto per il fatto che nessuno nello Yemen sembra rendersi conto delle vere ragioni di quello che sta succedendo. La lettura dello "Yemen Times" è un po' come leggere una serie di romanzi dell'orrore. Qui, Max Rupalti traduce una di queste storie terrificanti (U.B.)


DaYemen Times”. Traduzione di MR

Di Ali Ibrahim Al-Moshki

Il presidente Hadi domenica ha dato ordini urgenti
al ministro del petrolio e al ministro delle finanze
 di sorvegliare le importazioni entro una settimana
per coprire la domanda di quattro mesi. 
SANA'A, 9 maggio – Il presidente Abdu Rabu Mansour Hadi domenica ha dato ordini urgenti al ministro del petrolio e a quello delle finanze di sorvegliare l'importazione di derivati del petrolio dall'estero entro una settimana per coprire la domanda per quattro mesi. Ciò avviene nel bel mezzo di una incessante crisi di combustibile nel paese.

Code infinite di auto in fila per la benzina hanno portato ad una grave congestione nella capitale. La scarsità è durata mesi ed ha portato alla chiusura di diverse stazioni di servizio.

“Ho passato circa 20 ore qui e non ho ancora fatto benzina. Ho paura che la stazione di servizio finirà la benzina prima che venga il mio turno”, ha detto Abdurabu Al-Qefri, un tassista di Sana'a. Al-Qefri ha detto allo Yemen Times che molte grandi strade sono chiuse a causa delle lunghe code di fronte alle stazioni di servizio.

“Non mi piace più uscire a causa degli ingorghi del traffico. Arrivo tardi al lavoro e torno anche a casa tardi”, ha detto l'automobilista Mohammed Ahmed Al-Mahali.

La Yemen Petroleum Company ha assicurato venerdì i consumatori che il carburante sarebbe stato fornito al ritmo normale, secondo l'agenzia di stampa di stato Saba.

Ad un incontro del Consiglio Supremo della Riunione Congiunta dei Partiti (RCP) domenica, l'organo ha fatto appello al governo perché prenda immediatamente le misure necessarie per affrontare questa crisi di carburante.

L'RCP ha detto che il governo dovrebbe lavorare per prevenire il contrabbando di combustibile ed arrestare i contrabbandieri di combustibile responsabili. Parte della ragione della carenza è il fatto che gli oleodotti hanno subito ripetuti attacchi da tribù armate. L'agenzia di stampa Saba ha detto lo scorso mese che gli attacchi agli oleodotti sono costati allo Yemen 4,75 miliardi di dollari negli ultimi tre anni.

Anche se lo Yemen è un produttore minore di petrolio nello scenario mondiale, il petrolio è una delle merci di esportazione più importanti del paese. I proventi del petrolio greggio costituiscono circa il 70% del bilancio pubblico del governo, secondo un rapporto della Banca Mondiale di inizio anno. Il rapporto ha detto che lo Yemen produce da 280.000 a 300.000 barili al giorno, dopo un picco di 400.000 barili al giorno.

sabato 28 giugno 2014

Renzi: un governo contro l'energia pulita






da "Il Fatto Quotidiano"

Rinnovabili e blackout: Italia vs. Germania

Mentre vengono resi noti i risultati degli stress test condotti su 145 reattori nucleari europei che hanno evidenziato estese criticità, la Commissione Europea rimane in stand-by. Non intima la chiusura delle 13 centrali più obsolete e a rischio perché sono fortissime le pressioni del vecchio sistema energetico a mantenere la megastruttura che unifica fossili e nucleare. Così si contrasta la stessa Roadmap 2050 dell’Ue, che prevede una larga prevalenza delle fonti rinnovabili per la metà del secolo.

Il nostro Governo, pur obbligato dal referendum a stoppare il nucleare, rientra nel gruppo degli avversari delle rinnovabili. Continua in questo la politica di Berlusconi – d’altra parte gli interessi dei banchieri al governo sono contigui a quelli delle lobby dei mega-impianti che ispiravano il Cavaliere – e quindi rilancia gas, petrolio e carbone. Tutto questo con lo spauracchio dei blackout energetici, in agguato, a quanto vorrebbero farci credere, se dovesse affermarsi un sistema decentrato, governato sul territorio e alimentato dalle fonti naturali.

Niente di più falso e indimostrabile. A riprova della faziosità di Passera & Co quando ipotizzano un’Italia solcata da tubi e elettrodotti, costellata di rigassificatori e magari depositi di CO2, viene la conferma che in Germania, l’inverno scorso, le luci sono state tenute accese dall’energia solare. Il Governo tedesco, che si prepara a chiudere i suoi 22 reattori nucleari, ha ridotto anche gli scambi nucleari con la Francia rischiando il blackout ma, come ha detto il responsabile per l’energia del Bunderstag: “Siamo stati salvati dal sole”. È pur vero che lo scorso febbraio il territorio dalla Baviera alla Mosella ha avuto un’eccezionale insolazione ma i 28 GW di potenza fotovoltaica, concentrati nella regione, erano collegati alla rete ed hanno fornito il 3% circa della potenza totale. Il solare è un generatore di elettricità intermittente, dipendente dagli impianti di stoccaggio e di back-up che ovviano, se ben progettati, alla capacità di potenza quando il sole non splende.

È risultato determinante per la Germania l’avere investito nelle reti e nei sistemi di immagazzinamento. Lo sforzo tedesco consiste nel ritenere le rinnovabili sostitutive dei fossili e quindi meritevoli della massima attenzione lungo tutta la filiera. Si è così creata una capacità di energia in eccesso, che ha consentito di aumentare le esportazioni di elettricità verso la Francia ipernucleare da 4 a 5 GW.

“I dati non mentono – ha affermato Brandon Mitchener, portavoce di First Solar, azienda leader nel fotovoltaico – e dimostrano che solare ed eolico sono in grado di fornire reale potenza proprio quando è più necessario, quando la domanda è al suo apice”. I governi europei dovrebbero puntare ad ampie e ben coordinate connessioni alla rete inter e intra-europea, che non esistono ancora. È proprio la “Roadmap 2050” a richiedere l’integrazione delle fonti energetiche rinnovabili nella rete e piani di sviluppo delle infrastrutture, ivi compreso il consolidamento delle interconnessioni con i paesi vicini. Invece di mettere controlli alle frontiere per l’energia elettrica (è bene sapere che il gas che passa da Dobbiaco subisce un aumento del 7% quando entra nelle condotte Snam!), occorrerebbe in Europa assicurare una migliore integrazione delle energie rinnovabili.

Come si comporta l’Italia, dove il silenzio copre tutte le decisioni strategiche che i cittadini dovrebbero conoscere? Il piano energetico di Passera, in discussione in questi giorni, va in direzione opposta alla linea proposta dalla Ue. Prevede l’autarchia da petrolio e gas e la marginalità delle rinnovabili. Niente visione di lungo periodo, né partecipazione all’integrazione europea strutturale. Che altro aspettarsi da banchieri e tecnici che usano la crisi per rimettere in corsa vecchi poteri, anziché aprire il varco a speranze, intelligenze, competenze e tecnologie che si misurino positivamente con la crisi climatica e ne facciano occasione per buona occupazione, risanamento ambientale, tutela della salute?

venerdì 27 giugno 2014

Perché non finiremo mai il petrolio






DaResource Insights” Traduzione di MR

di Kurt Cobb

L'economista di Harvard Morris Adelman, famoso per aver detto che non finiremo mai il petrolio, è morto il mese scorso. Ciò che è seguito all'annuncio della sua morte è stato un prevedibile insieme di encomi come questo da parte dei difensori dell'industria petrolifera che esaltano l'infinita saggezza di Adelman. Alcuni (compreso mio padre, apparentemente) sono stati così coinvolti nello strano stato d'animo celebrativo – quello che riemerge ogni volta che la gente contempla quante cose ci sono nell'Universo – che il motto piuttosto limitato e quasi insignificante di Adelman è stato presentato come la base di una politica energetica completa. (E non importa che quella politica energetica non menziona assolutamente il cambiamento climatico). Tutto ciò ha senso solo se si evita di pensarci. Ma una semplice illustrazione mostrerà proprio quanto sia insignificante la nozione che non finiremo mai il petrolio. Immaginate per un momento che a partire da domani una metà del petrolio che la società umana normalmente consuma ogni giorno non sia più disponibile e che questo vada avanti per diversi mesi.

Questo certamente non significherebbe che lo abbiamo finito. Avremmo semplicemente molto meno petrolio di quanto ne serva al nostro attuale sistema globale per funzionare così come è progettato. Il risultato sarebbe sicuramente una depressione economica globale. E' così che siamo dipendenti dall'attuale TASSO di produzione di petrolio. E' questa l'importanza che ha l'input continuo di energia di alta qualità da petrolio per il nostro benessere collettivo. Questo spiega la preoccupazione di coloro che credono che un declino del tasso mondiale di produzione di petrolio potrebbe arrivare entro il prossimo decennio. Nessuno in questo gruppo ha mai detto che finiremo il petrolio. Si tratta di una fandonia usata per confondere la gente sul problema reale, che è il TASSO di produzione. Ma questo non si riflette nell'osservazione spesso troncata di Adelman. Inoltre, ciò che ha detto in realtà è stato che il petrolio non finirà finché la tecnologia sarebbe progredita e i prezzi fossero sufficientemente alti da giustificarne l'estrazione. All'interno dei confini molto stretti della sua dichiarazione piuttosto annacquata e quasi tautologica, Adelma ha ragione. La parola chiave in questa dichiarazione, tuttavia, è “sufficientemente”.

E se la tecnologia progredisce, ma non sufficientemente, e se il prezzo del petrolio è alto, ma non abbastanza alto da giustificare di estrarlo dal sottosuolo al TASSO richiesto per il funzionamento dolce della società globale? Cosa succederebbe? L'ironia è che mentre coloro che si sono alleati con l'industria petrolifera stanno lodando il caro estinto, l'industria petrolifera stessa si sta tirando indietro dagli investimenti in esplorazione e sviluppo petrolifero anche a fronte dei prezzi medi record del greggio mondiale. La ragione: un aumento di cinque volte delle spese del cosiddetto capitale a monte per l'esplorazione e lo sviluppo da parte della grandi compagnie petrolifere dal 2000 che è risultato solo in un piccolo aumento della produzione di petrolio per quelle stesse compagnie. Anche con prezzi del petrolio al di sopra dei 100 dollari, il costo e il miserrimo ritorno sull'esplorazione e lo sviluppo sta spingendo le grandi compagnie a tagliare le loro precedenti spese sontuose.

Tutto ciò può significare solo una cosa: meno petrolio consegnato in futuro. E tutto ciò va nella direzione opposta all'osservazione di Adelman. I progressi tecnologici continuano ad essere sviluppati dall'industria, compreso la cosiddetta fratturazione idraulica con grandi volumi di  “acqua liscia” (slickwater hydraulic fracturing), in combinazione con la trivellazione orizzontale usata per estrarre petrolio dai depositi di scisto profondi che erano precedentemente inaccessibili. E mentre con queste tecniche hanno aumentato significativamente la produzione negli Stati uniti, la crescita nella produzione complessiva mondiale nei 7 anni dal 2005 al 2012 è in realtà rallentata drammaticamente a circa un quarto del tasso dei sette anni precedenti. E questo in un'era di nuove tecnologie, di prezzi medi quotidiani da record e, finora, di spese record in esplorazione e sviluppo da parte delle compagnie petrolifere.

Sì, le condizioni di Adelma – prezzi alti e progresso tecnologico – ci hanno evitato di finire il petrolio. Ma ma non è questo il punto. Queste condizioni avrebbero dovuto produrre un eccesso e prezzi bassi. Non sono riusciti a farlo per una ragione semplice. Nella corsa fra la geologia sempre più impegnativa e la localizzazione delle rimanenti risorse petrolifere del mondo e la tecnologia sempre in progresso dell'industria petrolifera, la geologia e la localizzazione stanno vincendo. E in realtà sembra che stiano vincendo da parecchio mentre le scoperte fanno fatica a compensare i consumi. Ciò significa che stiamo vivendo un tempo in prestito, usando riserve facili da ottenere scoperte molto tempo fa – e nella speranza, ma contro ogni speranza, che in qualche modo nuove tecnologie prenderanno il sopravvento prima che arrivi il vero declino della produzione. Ciò rende la politica energetica molto debole. Agli economisti di Harvard piacerebbe pensare che il mondo obbedisca a pochi principi semplici che si applicano sempre ed ovunque. Ma in realtà il mondo è di gran lunga più complesso di quanto qualsiasi economista possa immaginare. Visto che noi come esseri umani siamo a conoscenza di una percentuale molto piccola di quella complessità, l'umiltà e la prudenza dovrebbero essere le nostre parole d'ordine quando affrontiamo problemi epocali come la politica energetica.

Le grandi previsioni nell'anno 2000, da parte della EIA statunitense, della IEA e del National Intelligence Council (che serve le agenzie di intelligence degli Stati Uniti) hanno proclamato con fiducia che la produzione di petrolio poteva salire nel prossimo decennio per compensare l'aumento della domanda e che i prezzi sarebbero rimasti bassi. Incantati dalla logica semplice ma errata di Adelman e di altri, hanno malamente sbagliato i numeri della produzione – erano tutti troppo ottimistici – e ancora di più sui prezzi, prevedendo un prezzo medio di circa 28 dollari al barile nel 2010 quando i prezzi giornalieri sono stati in media di 80 dollari. Gli psicologi hanno imparato da studi che persino quando la gente sa che chi fa le previsioni con troppo confidenza ha in gran parte sbagliato sbagliato in passato, sceglieranno di creder loro a causa della loro presentazione sicura. E la gente, in generale, non crederà ai presentatori sperimentali anche se quella gente sa che i presentatori sperimentali sono stati più precisi in passato. Adelman ed i suoi accoliti hanno dato idee semplici ma fuorvianti con sicurezza – e idee che sono in linea con ciò che molta gente vuole credere. Non vedremo mai tali ideologi ritrattare le proprie idee quando i fatti dimostrano che sono sbagliate. Ignoreranno semplicemente i fatti. E sperano che anche voi lo facciate.

giovedì 26 giugno 2014

Dimostrazione rigorosa che la specie umana non ha speranza di sopravvivere



Leggete questo link, che comincia dicendo: "In molte piccole città americane, uomini maschilisti  stanno modificando i loro camioncini truccati in modo da emettere intenzionalmente gigantesche nuvole di fumo tossico ogni volta che accellerano il loro motore. Lo chiamanorollin’ coal,” 



(h/t Nate Hagens) 

Turiel: aggiornamenti sulla situazione petrolifera

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR
























Di Antonio Turiel

Cari lettori,

nelle ultime due settimane sono venute fuori diverse notizie di grande impatto nel mondo dell'energia, tutte meriterebbero di avere una posizione di rilievo sulla prima pagina dei quotidiani e alcuni minuti nei notiziari televisivi, cosa che naturalmente o non è successa o o è stata mascherata da qualcos'altro. Tutte queste notizie comportano una crescente angoscia e preoccupazione per il futuro, non tanto dell'energia quanto dell'economia mondiale, e anticipano che il declino energetico può entrare in una nuova fase più rapida, in una caduta più precipitosa. Facciamo una revisione di questi fatti:

La Panoramica sull'Investimento Energetico Mondiale della IEA: Come 11 anni fa, l'Agenzia ha pubblicato un rapporto sulle necessità di finanziamento e sulle opportunità per gli investitori nel settore dell'energia globale. Il rapporto ha causato grande agitazione nella comunità delle persone consapevoli della crisi energetica per due motivi: perché indica che servirebbero 48 trilioni di dollari di investimento in energia da qui al 2035 e perché dice che il sistema europeo dei prezzi per l'elettricità garantiscono il fatto che la rete elettrica europea non è sostenibile. Rispetto alla prima delle minacce, bisogna contestualizzarla: 48 trilioni di dollari da spendere in 22 anni comportano una spesa media di 2,18 trilioni all'anno (cominciando da 1,5 trilioni quest'anno per finire con 2,5 trilioni nel 2035). Intendo dire che tutte queste cifre vengono fornite in dollari costanti. In confronto al PIL attuale (2012) del pianeta Terra (circa 71,8 trilioni di dollari) questa spesa media annuale rappresenta un 3% del PIL. Significativo ma non impressionante. Anche i 2,5 trilioni del 2035 rappresenterebbero solo il 3,5% del PIL di oggi. Il problema, come osserva Gail Tverberg, è che la IEA sta dando per scontata una crescita dell'economia mondiale del 3,6% all'anno, cosa che vedendo l'attuale rallentamento economico sembra sempre più difficile e, ciò che è peggio, tenendo conto dell'ormai indissimulabile tramonto del petrolio che comporta che questa crisi non finirà mai, in questo periodo tanto dilatato di tempo il PIL del pianeta comincerà a contrarsi. Il che è grave perché, a parte che le previsioni delle necessità di investimento della IEA sono sicuramente ottimistiche, in una situazione di PIL in declino il peso del costo energetico sarà sempre maggiore. Ricordiamo che, come indica James Hamilton, quando il costo finale dell'energia supera il 10% del PIL, un'economia entra in recessione. E i 48 trilioni che indica la IEA non sono il costo energetico, ma solo l'investimento totale necessario (secondo loro) perché continui a fluire (e questo assumendo che l'OPEC raccoglierà il gioco della avventura americana fallita del fracking, che il rapporto stesso mostra che ha le ali molto piccole). Per questo è facile supporre che il prezzo dell'energia sia una percentuale maggiore del PIL globale di quel 3% di costi di produzione e in una economia che non cresce sarà molto facile superare questa soglia del dolore del 10% del PIL, a partire dalla quale l'economia entrerà in una coclea irrecuperabile, visto che la recessione implicherà meno investimento in energia ed un aumento del prezzo della stessa che affonderà ancora di più l'economia in una spirale mortale e, per la prima volta, globale. Rispetto al secondo rischio che indica la IEA, non c'è molto da dire: il settore elettrico europeo (ricordiamo, tuttavia, che l'elettricità rappresenta una percentuale minoritaria e solo un 10% su scala globale) è in crisi e le compagnie elettriche non hanno troppo interesse ad investire nel loro mantenimento ed espansione. Sembra pertanto che i blackout saranno inevitabili nei prossimi decenni. Per un'analisi più approfondita consiglio l'eccellente articolo di Gail Tverberg su Our Finite Worldanche questo di Richard Heinberg.

Il documento sulla Strategia Europea di Sicurezza Energetica: Due settimane fa la Commissione Europea ha pubblicato un documento di strategia energetica il cui obbiettivo è quello di preparare l'Unione ad una possibile interruzione improvvisa della fornitura di gas naturale all'Europa. Anche se non viene detto apertamente, dietro a questa impostazione strategica c'è lo scontro fra Occidente e Russia per il caso Ucraina. La Commissione considera verosimile che ci possano essere problemi questo stesso inverno ed ha disposto che si facciano dele prove di stress (stress test) al più presto per verificare la capacità del sistema europeo di resistere a questa interruzione. Si parla anche molto di gas naturale, non si parla poco di petrolio, e in linea di principio le prove di stress sono per tutto il sistema energetico, cioè che si contempla anche un'interruzione della fornitura di petrolio: Anche se viene molto enfatizzato quanto l'Europa dipenda dal petrolio russo, viene data poca importanza a questa possibilità, chiarendo che finora la Russia è dipesa molto dai prodotti raffinati che le inviamo da qui – ma, è chiaro, oggigiorno i movimenti dei paesi sono sempre più imprevedibili. Per combattere questi rischi e nel breve periodo che rimane – mesi, da qui al prossimo inverno – i mezzi sono di favorire le interconnessioni, appellarsi alla solidarietà fra stati membri ed appoggiare la produzione energetica autoctona mediante rinnovabili (ignorando tutti i limiti di queste ultime e che di fatto non stanno funzionando troppo bene a livello europeo, non tanto nel caso molto particolare della Spagna, ma in Germania).

La produzione di petrolio greggio e di condensati vegetali, a parte il tight oil da fracking, sta già diminuendo: Matthieu Auzanneau si fa eco di questo fatto nell'ultimo articolo del suo blog, da dove ho preso questo grafico:


Come fa notare Matthieu nel grafico sopra, la diminuzione non si giustifica né togliendo i paesi dove si stanno osservando problemi seri (ora peleremo di quei paesi), per cui la conclusione è che davvero l'OPEC non ce la fa già più (cosa che viene mascherata dicendo che “il mondo è ben rifornito” nonostante l'abbondanza di prove del contrario). In particolare, l'Arabia Saudita ha messo in piena produzione il giacimento di Manifa, il cui petrolio fortemente contaminato da vanadio e molto solforoso è molto difficile da raffinare e colloca questo cattivo prodotto in miscele di prezzo più conveniente. Era la sua ultima pallottola, non le resta altro. Mal ipotizzato, il rapporto della IEA che abbiamo commentato all'inizio faceva poggiare sulle spalle finora grandi dell'OPEC la responsabilità di sostenere (a livello petrolifero) il mondo.

L'interruzione delle esportazioni del petrolio libico: Giorni fa è trapelata la notizia secondo la quale la Libia smetterebbe di esportare gli esigui 200.000 barili di petrolio al giorno che era ancora in grado di produrre per soddisfare le proprie necessità nazionali. La cosa certa è che dopo la guerra lampo di quasi 3 anni fa il paese non si è stabilizzato ma è andato progressivamente collassando, trasformandosi in un regno di Taifa, come evidenzia il seguente grafico di produzione petrolifera (quasi l'unica esportazione del paese), preso a sua volta dall'articolo di Matthieu Auzanneau:


Prima della guerra, il paese era in grado di produrre più di 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno (Mb/g), ora praticamente niente. Le potenze occidentali non hanno la capacità di imporre la propria volontà su un tavolo di gioco sempre più grande e complesso e i paesi, anziché essere controllati, collassano. E in una situazione in cui la produzione di petrolio si trova alla sua capacità massima e sta diminuendo, gli 1,6 Mb/g della Libia non sono per nulla disprezzabili. O non lo erano.

La guerra civile in Iraq: Il paradigma del collasso incontrollato sta venendo dal paese che si trovava da più tempo sotto il nuovo ordine mondiale petrolifero: l'Iraq. L'eterno Eldorado del petrolio la cui produzione doveva passare dai 3 Mb/g attuali a 6 Mb/g in qualche anno e addirittura giungere a 12 Mb/g in futuro, risulta che stia a sua volta collassando. La guerra civile non è mai finita del tutto e col ritiro delle truppe degli Stati Uniti si è andata aggravando. Il conflitto civile nella vicina Siria ha favorito il fatto che un movimento jihadista che si muove fra i due paesi abbia preso forza, fino a conquistare la città di Mosul, città chiave per il controllo del petrolio del Kurdistan per la sua raffineria e per il passaggio dell'oleodotto Mosul-Haifa (situato piuttosto più a sud). Se il gruppo armato continua ad avanzare potrà prendere il controllo di una delle zone più produttive dell'Iraq ed il sogno di un'abbondanza petrolifera nel paese finirebbe per sempre. Come dimostra il caso della Libia e la storia dello stesso Iraq, ci vogliono decenni per cancellare le impronte della guerra in un'industria tanto delicata come quella petrolifera.

L'instabilità generale di alcuni produttori: La produzione continua a diminuire in Angola e in Venezuela (in quest'ultima, spinta dalle proteste e dagli scioperi); il disastro ecologico del Delta del Niger ha molto a che fare con la sollevazione dei gruppi come Boko Haram e fa scappare alcuni investitori dal paese, mettendo ancora di più a rischio la produzione. Lo Yemen è sul punto di collassare, Egitto e Siria lo hanno già fatto... l'elenco potrebbe diventare molto più lunga, ma credo che vi siate già fatti un'idea.

Il riconoscimento sempre più forte del fatto che gli sfruttamenti di gas di scisto e petrolio di scisto con la tecnica del fracking sono completamente rovinosi economicamente: Poco più di un anno fa qui abbiamo affrontato il tema del rendimento scarso (o negativo) del fracking e sette mesi fa circa, nel momento in cui cominciavano a manifestarsi i sintomi del crollo di questa bolla finanziaria. Bene: sembra che cominci ad essere una verità detta ad alta voce. Ora è la stessa Bloomberg che ha fatto un'analisi approfondita delle perdite delle imprese del settore, giungendo alla conclusione che molte di esse spariranno. Non ci sarà, pertanto, una soluzione del problema petrolifero da questa parte, anche se fosse provvisoria (fino al 2020, come ha riconosciuto la stessa IEA). Il modello di importazione di energia ed esportazione di miseria, propiziato dalla condizione di moneta di riserva del dollaro, non si sostiene più e il fatto è che le compagnie petrolifere non possono continuare ad investire in affari di rendimento dubbio si sono lanciati in un disinvestimento aggressivo con conseguenze nefaste per il nostro futuro immediato. Questo provocherà non l'aumento della produzione di petrolio in un futuro immediato, ma che il il tampone che ci garantiva attualmente il fracking svanisca nel giro di qualche mese. Sommato a tutto quanto abbiamo detto sopra, questo mette in una prospettiva nuova e più inquietante il rapporto della IEA e fa comprendere che il suo linguaggio moderato nasconde una realtà sempre più inquietante.

Dopo tale rassegna di notizie nefaste, con cattivi presagi per il nostro futuro, cose vediamo? Anziché suonare i logici segnali d'allarme, la sola cosa di cui si sente parlare da queste parti e da molte altre sono i clacson dei tifosi di calcio, che si godono come mai prima uno degli ultimi mondiali di questo sport. Essendoci il calcio, a chi interessa vedere che il mondo so sbriciola? E tuttavia, una parte della popolazione molto tifosa degli ospiti del campionato, il Brasile, scende in strada a dire che no, non va bene...


Non ci serve la coppa del mondo. Ci servono i soldi per gli ospedali e per l'educazione

Forse sono loro l'ultima speranza che non tutto è perduto.

Saluti.
AMT