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martedì 24 novembre 2015

Marketing e sangue: la strategia dell'ISIS



di Jacopo Simonetta

Sulla strategia dell’ISIL (o ISIS, o Daesh che dir si voglia) vengono quotidianamente scritti fiumi di parole.   Non ho la competenza per farne una rassegna critica, e troppo numerosi sono i fattori in gioco per discuterli in un post.   Vorrei però approfittare di questo spazio per porre in risalto un dettaglio che mi pare interessante: la strategia della comunicazione dello "Stato islamico".  Un dettaglio che credo abbia a che fare con gli attentati in Europa (compresa la Russia).

Secondo il  RSDH (Réseau syrien des droits de l’homme)  nella guerra civile siriana circa l'80% delle vittime civili e la quasi totalità delle distruzioni materiali sono responsabilità del regime di Assad.   ISIL avrebbe commesso circa il 10% dei massacri e tutti gli altri insieme altrettanto.   Altre fondi danno cifre analoghe. Probabilmente non dipende tanto da scelte strategiche, quanto dalla potenza di fuoco e dai mezzi disponibili.   Solo Assad dispone di artiglierie ed aviazione.   ISIL provò a far volare un paio di caccia, ma furono immediatamente abbattuti dagli americani.

Eppure il "califfo" si è fatto una solida fama di super-criminale, tanto che Putin lo ha paragonato a Hitler.   Non è certo la prima volta che in una guerra uno dei contendenti assurge a male assoluto, ma la cosa interessante è che questa tenebrosa reputazione non dipende tanto da una campagna mediatica condotta dai suoi nemici, quanto da una campagna mediatica condotta dallo stesso Deash.   Per essere chiari, mentre gli altri contendenti hanno evitato di coinvolgere gli stranieri ed hanno seguito la strategia classica di nascondere i propri crimini, ISIL ha fatto di questi l'asse portante della sua strategia di comunicazione.   Anzi, sono dell'idea che molti dei suoi delitti più efferati sono stati compiuti esclusivamente ad uso dei media e dei social network.

Un fatto che credo sia assolutamente nuovo nel vasto panorama bellico recente ed attuale.

Riassumendo molto per sommi capi, Daesh nasce nel caos provocato dall'invasione USA dell'Iraq, sostanzialmente per contrastare la crescente ingerenza iraniana in quel paese e, in una prima fase, ha agito in modo da dare nell'occhio il meno possibile.   Ovviamente gli addetti ai lavori lo conoscevano bene, ma l’opinione pubblica occidentale ne era completamente all'oscuro.  Al massimo qualcuno, di tanto in tanto, ci ricordava che c’era stata l’ennesima autobomba ad una moschea irachena od un massacro in Siria.   Ma da quelle parti sono parecchi soggetti adusi a queste cose.

Poi le bandiere nere sono arrivate nella periferia di Baghdad, dopo aver preso il controllo di gran parte delle aree petrolifere irachene e siriane.   Fulmine a ciel sereno!   Nessuno sembrava sapere da dove fosse saltato fuori un intero esercito, bene armato e combattivo.

La reazione iniziale degli americani e dei loro satelliti fu raffazzonata e ben poco efficace, mentre questo gruppo manteneva una vivace iniziativa sia sul campo, sia sui media, passando istantaneamente dai documenti riservati alle prime pagine del mondo intero.

In questa fase, diciamo di emersione di ISIS, furono decapitati alcuni prigionieri.   Perché usare un modo così poco pratico di ammazzare la gente in un’epoca in cui abbondano i fucili?   La mia ipotesi è perché una fucilazione avrebbe prodotto degli articoli in terza pagina e solo in alcuni paesi.   Una decapitazione filmata e postata su internet viene vista da centinaia di migliaia di persone ed assicura le prime pagine sui giornali del mondo intero per parecchi giorni. E tutto ciò a costo zero.

Non solo, ma questa che potrebbe essere semplicemente una strategia di marketing, si è rivelata particolarmente efficace negli effetti prodotti.   I balordi di banlieu hanno infatti letto l’azione omicida come un atto di forza e di coraggio, mentre hanno visto lo strepito dei media internazionali come uno starnazzare di vecchiette spaventate.

L’effetto galvanizzante è stato quindi particolarmente efficace proprio sul target principale: i giovani maschi della piccola borghesia nelle grandi città, sia arabe che europee.   Gente assolutamente normale, ma potenzialmente pericolosa per l’effetto combinato di sovrappopolazione, recessione economica ed una cultura fatta solo di slogan, videogames e propaganda.   Un ambiente in cui vittimismo a buon mercato, delusione e desiderio di rivolta si sposano bene con una situazione economica spesso modesta, ma sufficiente a garantire l’accesso ai gadget tecnologici necessari per seguire le “eroiche imprese del Califfato”.

Altra trovata pubblicitaria geniale.   Evocare il califfato significa immediatamente evocare i tempi in cui l’Islam era la potenza egemone ed il fulcro della civiltà.   Mentre l’Europa occidentale non era che un ricettacolo di banditi poveri ed ignoranti.   Che non fosse esattamente così lo sanno bene i professori di storia, ma non certo i balordi.   Del resto perché stupirsi, se anche fra gli europei d’antica data questa visione un tantino semplicistica passa per buona?   Non è certo una novità che la storia, come strumento politico, funziona tanto meglio quanto meno è conosciuta.

Dunque un grande successo di mercato, con i “Califfo fan club” che sbocciavano come margherite in buona parte del mondo islamico, comprese le comunità insediate in Europa da generazioni.
Nel bombardamento di immagini cui siamo stati sottoposti,  ogni dettaglio era evidentemente curato da professionisti: coreografi, costumisti, registi, eccetera.   Uno staff di professionisti dello spettacolo e della comunicazione che, chissà? Magari sono americani e francesi.  Perché no? Business is now.


E' però risaputo che l’esposizione ad un messaggio provoca un innalzamento della soglia di attenzione.   Dopo un poco, per mantenere la fatidica posizione fra i primi tre posti su Google fu quindi necessario rincarare la dose.   Così siamo passati dalle esecuzioni singole a quelle multiple, poi ai massacri delle minoranze.  

Come abbiamo visto, altri protagonisti della tragedia siriana hanno fatto cose simili ed anche peggiori, ma la differenza è che l'ISIL se ne è fatto un vanto di fronte al mondo.   Col risultato di diventare un polo d'attrazione planetario per una consistente minoranza di mussulmani nel mondo non solo arabo.

Evidentemente, risultati di questo genere non si ottengono da zero.   A monte di tutto ciò ci sono stati trenta anni di capillare diffusione  del wahhabismo a gran forza di petroldollari e, sopratutto, la massiccia presenza mediatica di questa setta capace di impersonare il ruolo di "Islam tadizionale" in tutti quegli ambienti in cui la storia dell'islam è del tutto ignota.   E fra questi anche gran parte delle nuove generazioni in seno alle famiglie mussulmane.    Un altro fattore che i comunicatori del Daesh hanno saputo magistralmente sfruttare sono gli effetti destabilizzanti della sovrappopolazione; oltre alla delusione per le mancate promesse del progresso all'occidentale.    E, soprattutto, la grave crisi economica generata dal globale impatto contro quei "Limiti dello Sviluppo" di cui tanto si parla su questo blog.

Tornando alla campagna mediatica che Daesh ha sviluppato sinergicamente a quella militare, un'altra fase fu caratterizzata dalla formale riduzione in schiavitù delle donne.   Totale o parziale a seconda del credo religioso, con tanto di annunci pubblicitari per la vendita all'asta di lotti di ragazze yazide e cose del genere.   Un altro successo mediatico anche se, bisogna dire, assai più banale.   Maltrattare le donne non è certo un’idea originale, ma come si dice in gergo, è un “evergreen”.   Una cosa che ti assicura comunque un buono share.

E quando anche questo filone ha cominciato a retrocedere verso la seconda pagina sui motori di ricerca, c’è stata la fase della distruzione delle opere d’arte.   Un’altra volta le prime pagine gratis ed una netta divisione fra una massa di persone sgomente ed una minoranza di balordi entusiasti.
Nel mezzo il grosso delle comunità islamiche europee, sempre più strette fra le reazioni dell’opinione pubblica ora buoniste, ora aggressive, ma in entrambi i casi utili alla propaganda jihadista.

Un altro effetto ottenuto con questa strategia è stato quello di contribuire a rivitalizzare in varie parti del mondo un senso di appartenenza basato su di un cristianesimo che, pur essendo perlopiù (ma non sempre) pacifista, sta minando quel laicismo che credevamo essere una conquista definitiva della nostra civiltà.

Ancora più importante è però il successo che l'ISIL sta avendo nel sostenere la crescita della destra xenofoba sia in Europa che in Russia e negli USA.    L'equazione mussulmano = arabo = terrorista (almeno potenziale) è stupida, ma anche rassicurante in quanto identifica un nemico  chiaramente circoscritto e facilmente riconoscibile.   E' bello pensare che hai un nemico, che lo puoi sconfiggere e che dopo andrà tutto bene. Niente di meglio per aumentare il disagio delle comunità islamiche fra cui si raccolgono fondi e si arruolano soldati.

In questo quadro, l’attacco a Charlie Hebdo assicurò daccapo una copertura mediatica globale praticamente gratis.   Ma forse qualcosa cominciò a cambiare nell'atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica europea, compresa quella mussulmana.   La partecipazione di 4 milioni di persone in tutt’Europa alla manifestazione che seguì può essere spiegata solo in parte con la propaganda.   Personalmente ho avuto modo di vedere palestinesi ed israeliani scambiarsi le bandiere ed ho udito importanti imam dire chiaro e tondo che l’integralismo islamico era un pericolo mortale prima di tutto per i mussulmani.   Più di una fatwa è stata formalmente lanciata contro il Daesh.   Per ora apparentemente senza risultato, ma l’evoluzione dei fenomeni storici non necessariamente rispetta il nostro infantile desiderio di veder risolti i problemi in un fiat.

Forse, dal loro punto di vista, fu un errore e forse no.   Ma sta di fatto che nei mesi precedenti il "califfo" aveva subito importanti rovesci ad opera di inedite alleanze, temporanee e parziali, ma efficaci.   Ad esempio la città strategica di Tikrit era stata riconquistata da truppe irregolari iraniane e milizie locali, sostenute dall'aviazione statunitense.

In Siria, sempre grazie agli americani, i Curdi avevano respinto l’ISIL a Kobane, per poi passare alla controffensiva anche in altri settori.   Più di recente, rinforzi iraniani e russi hanno rianimato  le sfinite truppe di Assad che hanno ripreso l’iniziativa in tutto l’ovest del paese.  Anche se l’ISIL non è il loro unico obbiettivo.

Per rilanciare l’immagine del "califfato" e portare nuova linfa alle sue fila occorreva qualcosa di sensazionale.   Purtroppo anche in questo campo vige l’implacabile legge dei ritorni decrescenti e, se un paio di anni fa bastava assassinare un prigioniero per ottenere un successo di pubblico planetario, man mano che la gente si abituava allo spettacolo della violenza gratuita, è stato necessario alzare il tiro.   Finché, forse, si è commesso un errore di valutazione.

Gli attentati in Turchia (Suruc in Luglio, circa 30 morti, ed Ankara in ottobre, 100 morti) sono di difficile lettura perché fra le loro conseguenze ci sono stati il rilancio delle ostilità contro il PKK e la vittoria elettorale di Erdogan che non nasconde le sue ambizioni.   Se non proprio califfo, almeno sultano lo vuole diventare di sicuro.

Poi ci sono stati i due attentati più sanguinosi: quello contro l’aereo russo e quello in centro a Parigi.
Sia la Russia che la Francia sono attori recenti nello scacchiere siriano.   Forse il doppio attentato aveva quindi lo scopo di intimidire questi governi ed indurli a ritirarsi, come era avvenuto con l’attentato di Madrid del 2004 (quasi 200 morti).   Se questo fosse il caso, il risultato ottenuto sembra essere stato quello opposto.

In alternativa, potrebbe essere stato un modo per rilanciare la consolidata strategia di marketing, con azioni tanto spettacolari da assicurare nuovamente uno share globale, provocare reazioni isteriche da parte occidentale, mettere ulteriormente nell'angolo le minoranze islamiche e ridare entusiasmo ai propri sostenitori.   Tutte cose puntualmente successe.

In questa seconda ipotesi, che Francesi e Russi bombardassero  alcuni palazzi ed installazioni a Racca era scontato e, forse, faceva parte della strategia di comunicazione.   Il fatto di resistere ad un attacco portato con mezzi strapotenti non può che convincere ulteriormente i balordi di periferia dell’indomito coraggio e dell’invincibilità dei combattenti del “califfo”.

Ma potrebbe anche darsi che le potenze grandi e piccole che svolazzano sui cieli siriani si siano stufate e trovino un accordo.   Magari parziale ed ingiusto, ma temporaneamente efficace.   Non sarebbe facile per l’intreccio mortale di interessi fra occidentali e Sauditi, ma potrebbe accadere e forse è già accaduto. Se fosse (o se sarà) così i giorni del “califfo” sarebbero contati.   E’ presto per saperlo, lo vedremo nel corso dei prossimo mesi, ma per adesso vediamo un’azione congiunta franco-russa.   Non si vedeva dal 1945 e sfido chiunque a dire che lo aveva previsto.

Ovviamente, l’eventuale fine del Daesh non significherebbe in alcun modo la fine del caos e della violenza in medio Oriente.   E nemmeno la fine dell’immigrazione di massa o degli attentati.
I balordi ad un tempo sfigati e viziati saranno ancora li, mussulmani e non.   Ci sarà ancora l'industria teologico-mediatica del wahhabismo, come saranno ancora li la recessione economica, la delegittimazione della classe politica, l’avidità senza fondo del mercato.   E ci saranno ancora il picco di tutto, la sovrappopolazione, il peggioramento del clima, la desertificazione dei suoli, la morte della Biosfera e molto altro ancora che nessuna alleanza militare, né alcun progetto di integrazione culturale può minimamente scalfire.

Ma se vogliamo essere ottimisti a tutti i costi, possiamo forse sperare che gli europei, di tutte le confessioni e colori, capiscano che l’unione non fa solo la forza per reagire agli attacchi criminali.   E’ anche l’unico strumento che abbiamo per mitigare gli effetti del rendiconto che il Pianeta ha appena cominciato a presentaci.




giovedì 19 novembre 2015

Siria, cambiamento climatico e l'orrore di Parigi

Da “Resource Insight”. Traduzione di MR

Di Kurt Cobb

Mentre il mondo piange coloro che sono morti a Parigi la scorsa settimana con una follia omicida per la quale lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) ha già rivendicato la responsabilità, giornalisti e commentatori hanno discusso le motivazioni che stanno dietro agli attacchi. Non sono certo se qualcuno finora abbia considerato se si possa disegnare una linea che va dalla grave siccità in Siria a queste uccisioni di massa. La mia personale risposta è che se c'è una linea – e credo che ci sia – questa deve avere preso molte curve e deviazioni prima di arrivare a Parigi. Anche così, potrebbe avere senso, per coloro che tra poco si raccoglieranno in questa città in lutto per negoziare un nuovo trattato climatico, capire ogni connessione del genere. Perché sullo sfondo di questi eventi, c'è una Siria assetata di acqua, quasi sicuramente a causa del cambiamento climatico. Uno studio pubblicato all'inizio dell'anno suggeriva che il primo collegamento nella catena causale che ha portato all'attuale conflitto in Siria è stata una grave siccità durata dal 2006 al 2009, una siccità che ha fornito una delle prove più forti fino a questo momento del collegamento fra cambiamento climatico e siccità sempre più estreme. Come ha scritto il The New York Times nel marzo scorso:

Alcuni scienziati sociali, politici ed altri hanno precedentemente suggerito che la siccità ha giocato un ruolo nei disordini in Siria e i ricercatori si sono occupati anche di questo, dicendo che la siccità “ha avuto un effetto catalizzatore”. Hanno citato studi che hanno mostrato che l'aridità estrema, insieme ad altri fattori, comprese politiche agricole e di uso dell'acqua sbagliate da parte del governo siriano, hanno causato la perdita dei raccolti che hanno portato alla migrazione di 1,5 milioni di persone dalle aree rurali a quelle urbane. Questo si andato ad aggiungere agli stress sociali che alla fine sono sfociati nella rivolta contro il presidente Bashar al-Assad nel marzxo del 2011.
Così, il cambiamento climatico non è una spiegazione sufficiente per il conflitto siriano né per gli orribili e brutali attacchi sui civili francesi. Di fatto, l'ISIS aveva minacciato la Francia molto prima che l'esercito francese entrasse nel conflitto alla fine di settembre. Ciononostante, il cambiamento climatico sembra essere il primo collegamento in una lunga catena di eventi che coinvolgono una miriade di gruppi e paesi che alla fine ha portato agli attacchi a Parigi, attacchi che si crede siano una rappresaglia contro gli attacchi aerei francesi contro l'ISIS. Non è tanto che il cambiamento climatico fa diventare violente le persone, quanto che inasprisce le loro tendenze violente. La mancanza d'acqua e la perdita dei raccolti possono rendere le persone molto, molto arrabbiate – arrabbiate e suscettibili con coloro che promettono vendetta contro coloro che vengono percepiti come i perpetratori dei loro problemi. Ma non si può combattere il cambiamento climatico con le pistole. Così, quando escono fuori le pistole, queste vengono puntate contro le persone per motivi che pochi fanno risalire al cambiamento climatico. Rimostranze latenti, vecchie e nuove, possono trovare espressione, pare, nel conflitto armato, quando il calore del riscaldamento globale viene alzato così tanto.

La principale preoccupazione a Parigi ora è per la sicurezza delle migliaia di scienziati, politici, persone in affari, giornalisti e capi mondiali che arriveranno in città per la United Nations Framework Convention on Climate Change fra il 30 novembre e l'11 dicembre. Entrerà nella mente dei partecipanti che i selvaggi attacchi di Parigi sono in qualche modo collegati al cambiamento climatico? La più ampia opinione pubblica mondiale vedrà il collegamento? Noi umani abbiamo una naturale tendenza a combattere per le cose che vogliamo e di cui abbiamo bisogno, come acqua, cibo e risorse energetiche. Il cambiamento climatico renderà la nostra capacità di ottenere tutto questo o più difficile (cibo ed acqua) o più problematica (gas serra da risorse energetiche da combustibili fossili). Un maggiore conflitto su questi fondamentali collegati al cambiamento climatico non possono essere lontani. E ciò significa che i colloqui sul clima in arrivo a Parigi non saranno solo sul clima. Saranno anche sul conflitto e la pace. Senza un progresso sostanziale sul cambiamento climatico è probabile che vedremo sempre più conflitti che cominciano con la privazione portata dal cambiamento climatico, che si trasformano rapidamente in guerra con dimensioni ideologiche, etniche e religiose che inghiottiranno intere regioni. Molti lettori forse conoscono il vecchio adagio sulla relazione fra pace e giustizia: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia”. A questo oggi dobbiamo aggiungere una nuova variazione: “Se vuoi la pace, devi lavorare per politiche e pratiche che affrontino seriamente il cambiamento climatico”. Che i negoziatori di Parigi possano trovare il coraggio di fare proprio questo.



martedì 22 luglio 2014

L'ipotesi non provata dei 6 milioni di barili al giorno di petrolio iracheno per il 2020

Da “Crude Oil Peak”. Traduzione di MR

Dato il tumulto etnico in Iraq provocato dalla recente presa da parte di ISIS di alcune città a nord e a ovest dell'Iraq, non è certo in che modo questo avrà un impatto sulla produzione di petrolio nel sud controllato dalla Shia, da dove provengono la maggior parte delle esportazioni irachene. Al momento, le esportazioni di petrolio dai nuovi terminali petroliferi di Basrah non sembrano essere state condizionate dai disordini, ma questo può cambiare. Non sappiamo cosa succederà, specialmente se questo conflitto si allarga la guerra virtuale fra Arabia Saudita e Iran che è stata finora limitata alla Siria (dove la produzione di petrolio aveva già raggiunto il picco). Sarebbe prudente per i governi che stanno ancora pianificando nuove strutture dipendenti dal petrolio come strade ed aeroporti accantonare questi progetti e prepararsi piuttosto alle carenze di petrolio.

Quasi un anno fa ho scritto questo articolo: 9/8/2013 Le esportazioni di petrolio greggio dell'Iraq bloccate in mezzo agli attacchi agli oleodotti

http://crudeoilpeak.info/iraq-crude-oil-exports-stall-amid-pipeline-attacks

Questo post è un aggiornamento.


12/6/2014 I residenti di Mosul scappano dall'ISIS e cercano di attraversare il fiume Tigri verso est

Una mappa del Centro per l'Informazione sulla Politica Energetica (Washington) descrive la situazione strategica del petrolio:

L'Iraq potrebbe “rispedire chi fa le previsioni economiche al tavolo da disegno”
13/6/2014


Fig 1: Mappa che mostra i recenti avanzamenti dell'ISIS e le infrastrutture petrolifere

http://energypolicyinfo.com/2014/06/iraq-disruption-could-%E2%80%9Csend-economic-forecasters-back-to-the-drawing-board%E2%80%9D/ 

La pianificazione energetica torna al punto di partenza

E' importante capire che la IEA ipotizza in tutte le sue proiezioni che l'OPEC coprirà sempre il divario fra la produzione non OPEC e la crescita della domanda di petrolio prevista come risultato della crescita del PIL (rivolgersi all'OPEC). E l'Iraq gioca un ruolo centrale in questo concetto, come mostrato in questo grafico usando i dati dello scenario delle nuove politiche della IEA del suo ultimo WEO (novembre 2013):


Fig 2: Contributo ipotizzato dell'Iraq alla produzione di petrolio del Medio Oriente dell'OPEC

In particolare, nel periodo fino al 2020, si presume che l'Iraq contribuisca con 5,8 milioni di barili al giorno (mb/g) alla produzione globale di petrolio. Notate che nello scenario delle nuove politiche la domanda di petrolio (e – su definizione della IEA – le forniture) in quel periodo si presume che crescano ad un tasso molto modesto del 1,1% (in confronto al  1,4% dell'attuale scenario). La IEA ha anche lavorato sui propri calcoli secondo i quali la produzione del petrolio di scisto statunitense crescerà fino a 4,3 mb/g per il 2025 (p 476)

http://www.worldenergyoutlook.org/publications/weo-2013/ 

Un anno prima il WEO del 2012 della IEA (Capitolo 13 “L'Iraq oggi: energia ed economia”) aveva quest'idea della produzione e del consumo futuri dell'Iraq:


Fig 3: scenario centrale del WEO del 2012 della IEA per l'Iraq

http://www.iea.org/publications/freepublications/publication/WEO2012_free.pdf

Lo scenario centrale è lo scenario delle nuove politiche. L'ipotesi era di 6,1 mb/g per il 2020, non molto diverso dal WEO del 2013.

Produzione di petrolio greggio dell'Iraq




Fig 4: Produzione di petrolio greggio e Liquidi del Gas Naturale (LGS) fino a dicembre 2013

Quando ho scritto questo post, i dati mensili più recenti della IEA arrivavano solo al dicembre 2013. Possiamo vedere che la produzione nel 2012 ha cominciato a superare il massimo precedente ottenuto nel 2000. I LGN sono trascurabili. Dati più recenti suggeriscono che la produzione media nei primi 4-5 mesi del 2014 è stata di 3,1 mb/g (tavola 5.5 “comunicazione diretta” nel rapporto mensile del mercato del petrolio dell'OPEC) e di 3,3 mb/g (tavola 3 del rapporto mensile del mercato del petrolio della IEA).

Esportazioni di petrolio da Nord


Le esportazioni di petrolio dal Nord sono già terminate a causa dei continui attacchi agli oleodotti verso la Turchia all'inizio dell'anno.


Fig 5: Esportazioni di greggio dell'Iraq dai giacimenti del Nord e del Sud.

I dati provengono da qui: http://somooil.gov.iq/en/ 

Operatività delle raffinerie nel Nord

L'azienda delle raffinerie del Nord http://www.nrc.oil.gov.iq/ comprende:
(1) Il complesso della raffineria di Baiji (310.000 b/d)

  • Raffineria di Salahuddin 1 70.000 b/d
  • Raffineria del Nord 150.000 b/d + 20.000 b/d
  • Raffineria Salahuddin 2 70.000 b/d
  • Unità di polimerizzazione 20.000 b/d (da luglio 2011)
  • 2 treni di lubrificazione dell'impianto  125 kt pa

(2) Raffineria di Kirkuk 30.000 b/d
(3) Raffineria di Siynia 30.000 b/d
(4) Raffineria di Kisik 20.000 b/d
(5) Raffineria di Qaiyarah 34.000 b/d
(6) Raffineria di Hadithah 16.000 b/d
(7) Raffineria di Aljazirah 20.000 b/d

Il complesso della raffineria di Baiji è stato attaccato dall'ISIS ma sembra che sia tornato sotto il controllo del governo. I soldati Peshmerga curdi hanno occupato la postazione abbandonata dell'esercito a Kirkuk con la sua raffineria. La situazione potrebbe rapidamente cambiare. Baiji è già stata attaccata nel febbraio 2011. Le raffinerie devono essere mantenute in funzione altrimenti tutte le parti finiranno benzina a gasolio per spostarsi. L'Istituto per lo Studio della Guerra (Washington) segue tutti gli eventi da vicino

http://www.understandingwar.org/ e http://iswiraq.blogspot.com.au/

Notate che il giacimento di Kirkuk ha superato il proprio picco del petrolio:
21/1/2013

“I problemi coi curdi sono ulteriormente aumentati quando Baghdad ha annunciato un nuovo piano per avere il doppio della produzione dei giacimenti petroliferi di Kirkuk che si trovano nella zona contesa. La produzione dal giacimento di Kirkuk, che è stato scoperto nel 1927, è diminuita a 260.000 b/g da un massimo di 900.000 b/g di 15 anni fa ed ha fortemente bisogni di ricupero”.

http://peak-oil.org/2013/01/peak-oil-review-january-21-2013/

Gestione degli investimenti petroliferi di Baghdad

Secondo il WEO della IEA del 2012 (Capitolo 13 “L'Iraq oggi: energia ed economia”) l'industria del petrolio e del gas irachena ha bisogno di 20 miliardi di dollari americani all'anno fra il 2015 e il 2020 per aumentare la produzione di petrolio dell'Iraq fino a 6,1 mb/g per il 2020 e costruire raffinerie per soddisfare la domanda locale. Il governo locale di Baghdad sarà in grado di gestire un tale programma di investimento se è occupato a combattere l'ISIS mentre è sotto pressione dell'agitazione dei sunniti? Chi investirà in Iraq in circostanze del genere?



Fig 6: Investimenti richiesti per l'industria del petrolio e del gas irachena

http://www.iea.org/publications/freepublications/publication/WEO2012_free.pdf

Nella recente Panoramica sull'Investimento Mondiale in Energia della IEA

http://www.iea.org/publications/freepublications/publication/name,86205,en.html 

gli investimenti totali richiesti nel Medio Oriente per sviluppare e produrre petrolio fino al 2035 è di 2 trilioni di dollari (tavola 1,3). Usando i numeri del grafico sopra, quasi il 20% di questo investimento dovrebbe avvenire in Iraq.

Coinvolgimento dell'Iran 



Fig 7: Petrolio sotto-prodotto dell'Iraq

Dobbiamo confrontare la storia della produzione di petrolio dell'Iraq con quella dell'Iran. La produzione di petrolio dell'Iran ha raggiunto il picco a metà degli anni 70 (produzione eccessiva sotto lo Shah), cosa che ha innescato la seconda crisi petrolifera nel 1979. L'Iran ora si trova al suo secondo ed ultimo picco petrolifero, acuito dalle sanzioni. La produzione totale cumulativa fra il 1965 e il 2012 è stata di 63 Gb. Al contrario, la produzione petrolifera dell'Iraq durante lo stesso periodo è stata molto minore, 32 Gb. E' diminuita durante la guerra Iran/Iraq negli anni 80 e poi durante il programma 'petrolio in cambio di cibo' negli anni 90. Entrambi i paesi dichiarano di avere approssimativamente lo stesso volume di riserve. Il geologo petrolifero irlandese Colin Campbell ha avvertito che quelle riserve ufficiali sono in realtà quelle originali, non quelle che rimangono. Ciò significa che la produzione cumulativa doveva essere sottratta dalle riserve ufficiali. Dovrebbe pertanto essere chiaro che l'esaurimento del petrolio iracheno è molto minore di quello iraniano. La sotto-produzione di petrolio dell'Iraq è la ragione delle forti aspettative sulla futura produzione petrolifera dell'Iraq.

Esportazioni petrolifere dal Sud

Per ora, non sembra che l'avanzata dell'ISIS nel Nord dell'Iraq abbia avuto un impatto sulla produzione e sull'esportazione di petrolio nel Sud. Ma questo potrebbe cambiare.


Fig 8: Giacimenti petroliferi e terminal di esportazione nel Sud dell'Iraq

Per usare le parole di Dick Cheney del suo discorso “il petrolio non è uno svago” del 1999: Ecco dove si trova alla fine il premio.

http://www.resilience.org/stories/2004-06-08/full-text-dick-cheneys-speech-institute-petroleum-autumn-lunch-1999

Ignorati i primi avvisi

Nell'agosto 2007 su un programma televisivo a tarda sera sulla ABC:

Un giornalista britannico discute l'intervista con Bin Laden

TONY JONES: … lei scrive di una strategia progettata, di fatto, dallo stratega militare di Al Qaeda, lo stesso uomo che ha aiutato a progettare ciò che sta succedendo in Iraq con l'insorgenza lì a l'infiltrazione della gente di Al Qaeda in Iraq, ha messo in piedi un piano che lei ha pubblicato e che arriva fino al 2020. A che punto siamo del piano? Dove si propone di arrivare quel piano?

ABDUL BARI ATWAN: Stiamo affrontanto un problema enorme in Medio Oriente. …penso che nel 2020 vedremo un Medio Oriente del tutto diverso...

http://www.abc.net.au/lateline/content/2007/s2013661.htm

Apparentemente, ci sono nuovi attori in questo piano. La confusione viene descritta meglio da Robin Fisk, un giornalista che ha vinto molti premi sul Medio Oriente che vive a Beirut:
12/6/2014 “La storia dell'Iraq e la storia della Siria sono uguali – politicamente, militarmente e giornalisticamente: due capi, uno sciita, l'altro alawita, che combattono per l'esistenza dei loro regimi contro il potere di un crescente esercito musulmano sunnita internazionale”.

http://www.independent.co.uk/voices/iraq-crisis-sunni-caliphate-has-been-bankrolled-by-saudi-arabia-9533396.html

4 anni dopo, in un documentario televisivo sulla crisi petrolifera, il capo economista della IEA Fatih Birol ha veertito che dovremmo lasciare il petrolio prima che lui lasci noi:
28/4/2011 Avviso di crisi petrolifera della IEA: i governi dovrebbero averci lavorato 10 anni fa

http://crudeoilpeak.info/iea-oil-crunch-warning-governments-should-have-worked-on-it-10-years-ago

La panoramica di quest'anno sull'Iraq della IEA (maggio 2014)

La produzione irachena è aumentata di 140.000 b/g fino a 3,34 mb/g in aprile a seguito della partenza di nuova produzione nelle regione meridionale del paese e nonostante la sospensione continua di flussi degli oleodotti dai giacimenti del nord al porto mediterraneo di Ceyhan, in Turchia. Le esportazioni di greggio sono aumentate di 110.000 b/g, con spedizioni del greggio di Basrah dai terminali di esportazione del Golfo che hanno coperto tutte le esportazioni lo scorso mese. Ciò ha segnato un record massimo per il gigantesco giacimento di West Qurna‐2 nel sud dell'Iraq, partito a fine marzo con una produzione iniziale che si attesta sui 120.000 b/g. Tuttavia, le esportazioni del sud dell'Iraq potrebbero rimanere limitate a 2,5-2,6 mb/g per il resto dell'anno a causa di vincoli tecnici.

http://omrpublic.iea.org/omrarchive/15may2014fullpub.pdf

Conclusione

Nel decimo anno del picco della produzione di petrolio, i disordini in Medio oriente si allargano. Anche prima che si possa vedere il picco del petrolio (annuale) nello specchietto retrovisore delle statistiche petrolifere, la lotta per le riserve di petrolio rimaste e sui flussi petroliferi si sta intensificando. Ora, si sta finalmente intravedendo nei governi l'ipotesi di lasciare il petrolio prima che il Medio oriente lasci noi?